Valentina Furlanetto: «Franco Basaglia, i manicomi, Rosa ed io»

di Luisa Brambilla

Franco Basaglia è un nome che divide. La sua vita, la legge che porta il suo nome, sono il tema di Cento giorni che non torno di Valentina Furlanetto.

Sono storie parallele quelle di Franco (Basaglia) e di Rosa, che Valentina Furlanetto racconta in Cento giorni che non torno (Laterza). Rosa che era una sua parente e che passò la vita entrando ed uscendo dai manicomi: “prima quelli di mattoni” e poi “quelli chimici”.

Come è cambiato il nostro sguardo

Da dove è nato questo libro, da Rosa o da Franco?
«Da tutti e due: nel 2018 a 50 anni dall’approvazione della legge Basaglia mi è capitato di riflettere sul fatto che Rosa e Franco fossero coetanei, nati entrambe nel 1924. E che avevano due vite parallele, orbitando negli stessi contesti. Lei come paziente dei manicomi e lui come direttore e poi distruttore degli stessi. Ne ho fatto un articolo che ora ho deciso di raccontare. Due storie, una piccola, sconosciuta, l’altra enorme, che conosciamo tutti».

Cosa è la legge Basaglia

La storia di Franco Basaglia è ancora attuale?
«Franco Basaglia è stato uno dei pochi rivoluzionari dell’Italia del Novecento, riconosciuto anche all’estero. È una figura assolutamente attuale che ha fatto una legge di portata capitale, anche se di solito si notano di più le cose che restano da fare della legge 180. È stata ed è una grande rivoluzione non solo e soltanto per l’apertura dei manicomi, che erano un abominio. Quanto per lo sguardo che ha gettato su di noi, sui disturbi mentali come qualcosa che fa parte della natura umana. La conferma viene dal fatto che alle presentazioni di Cento giorni che non torno» confida Valentina Furlanetto «molti mi fermano raccontandomi dell’incontro loro o dei familiari con questo problema».

La biografia di Rosa

Anche la storia di Rosa è attuale?
«La storia di Rosa è esemplare. Fu internata per disturbi neurologici, perché dopo essere stata investita da un carretto aveva sviluppato problemi di epilessia. Che la lasciavano sfibrata e stranita per giorni. La sua vicenda racconta perché tante donne hanno vissuto segregate per problemi non mentali: lei soffriva prima di tutto di povertà, di violenza domestica. L’internamento comportava oltretutto la perdita dei diritti civili, cosa che le è sempre pesato tantissimo. E comunque la cura che le veniva proposta era l’elettroshock. Quando è uscita dal manicomio “di mattoni” oltretutto è entrata nel “manicomio chimico”. Leggendo la sua cartella clinica ho scoperto episodi della vita sconosciuti, perché lei non ne aveva mai parlato con le figlie, con i parenti. Probabilmente Rosa attribuiva a sé stessa la colpa delle violenze che aveva subito» riflette Valentina Furlanetto. «Mi è sembrata una grande ingiustizia, per lei e per le donne che sono finite in quel pozzo perché non erano conformi, che volevo sanare».

Cosa capita oggi alle donne fuori dall’ordinario?
«Le donne fuori dall’ordinario a volte vengono ammazzate. Le diagnosi che ho letto nell’archivio del Sant’Artemio sono spesso riconducibili più al catechismo che alla pratica clinica. Parlo delle descrizioni delle pazienti che ho trovato nelle cartelle cliniche del manicomio dove Rosa è stata internata.  “Ballava per casa o in strada”, “Non fa i lavori domestici” “Si rifiuta di dormire con il marito”. Adesso queste frasi fanno sorridere. Ma ci si continua a scontrare con una società e una prepotenza maschile che arrivano alla violenza per le stesse ragioni: perché una donna si autodetermina, decide di separarsi, ha idee originali, reca scandalo, vuole avere una vita sessuale libera. L’autodeterminazione è tutelata dalle leggi ma la cultura ancora arranca».

I pazienti e le loro famiglie

Valentina Furlanetto

Come ha pesato il manicomio sulla famiglia di Rosa?
«Ha gettato una ombra sulla sua famiglia, che è anche la mia, e mi ha portato a interessarmi a tutto questo» si confessa Valentina Furlanetto. «Quando negli ultimi anni della sua vita Rosa prendeva il bus, nonostante faticasse molto a muoversi, e andava in città a Treviso, sua figlia Maria si arrabbiava moltissimo. Temeva potesse avere delle crisi ma soprattutto era preoccupata che andasse in giro a raccontare cose della famiglia, cose “non conformi”.  Già da piccola, invece, sentivo che facesse bene a fare così. Rosa aveva bisogno di raccontarsi a un territorio neutro, senza l’etichetta di pazza che le era rimasta attaccata in paese. Poi, c’erano la figlia della pazza e la nipote della pazza, tutta una genealogia che a Treviso si dissolveva. Le ho voluto tanto bene per questo, anche io e mio fratello siamo andati molto lontano per un periodo della nostra vita e quando siamo tornati eravamo diversi perché finalmente non ci raccontavano più come ci raccontavano i vicini il paese ma come volevamo raccontarci noi».

Un giudizio sulla legge 180

Franco Basaglia è riuscito a cambiare il modo di fare psichiatria?
A voler essere ottimisti direi di sì perché la sua rivoluzione non ha solo chiuso i manicomi. Esistono i centri di salute mentale, punti di appoggio per la gestione delle crisi acute che la legge prescrive siano aperti sette giorni su sette 24 ore su 24. Esistono I servizi all’interno degli ospedali, i reparti psichiatrici, i servizi territoriali, la rivoluzione non metteva solo tutti fuori. Era indirizzata a costruire un modello nuovo» evidenzia Valentina Furlanetto.«Quando Franco Basaglia lavorava a Trieste con il presidente della provincia Zanetti insieme avevano scritto le norme che rendevano fattibile la trasformazione, tutelando i pazienti ma anche le famiglie e la società: i malati dovevano essere dimessi e trovare lavoro, appartamenti dove stare, borse di lavoro per il mantenimento, fu avviata una cooperativa di lavoratori. Perché comunque il malato è un uomo che ha bisogno di soldi, un lavoro, una famiglia, relazioni sociali, diceva Franco Basaglia».Poi tutto è stato realizzato a macchia di leopardo perché essendo la competenza delle Regioni ognuna ha deciso per sé. A Trieste ancora oggi c’è una realtà solida, in Sardegna ce ne è un’altra, in Lombardia e a Palermo pure. Ci sono tante resistenze anche culturali, perché c’è ancora una parte della psichiatria che ha un impianto organicista biologico, e tuttora si fanno gli elettroshock – che non servono a nulla – tuttora si legano le persone: su 220 reparti psichiatrici in Italia solo in venti non si adotta questa pratica».

Pillole e fascette

I farmaci per i disturbi mentali: sì o no?
«La chimica è stata una rivoluzione importantissima senza la quale neppure Basaglia e i basagliani avrebbero potuto fare quello che hanno fatto, vorrei sottolinearlo» precisa Furlanetto. «C’è questo equivoco per cui o stai dalla parte di una terapia delle parole o stai dalla parte della terapia chimica. No, gli psichiatri più illuminati usano entrambe. La cassetta degli attrezzi delle molecole serve. Sia per Rosa sia per altre persone la terapia farmacologica è la via più semplice. Purtroppo Rosa è diventata dipendente, prendeva psicofarmaci in maniera massiccia sotto indicazioni dei medici ma sicuramente ne abusava» ricorda Valentina Furlanetto.

Perché si legano i malati mentali?
«L’arretramento culturale va di pari passo con quello economico. Se il reparto di salute mentale ha pochi medici e pochi infermieri lega il paziente scompensato perché non ha personale per tenerlo. E poi si comincia a pensare che legare o tenere sia la stessa cosa. E quindi dalla questione economica la questione diventa culturale» ragiona la giornalista scrittrice.

La legge Basaglia 50 anni dopo

Ci sono parti della legge Basaglia che andrebbero riviste?
«Andrebbe messa mano alla parte della legge che riguarda la gestione del Tso, il trattamento sanitario obbligatorio. Mancano specifici decreti attuativi. Questo rende incerto il confine dei ruoli di  psichiatri, sindaco e forze dell’ordine nella richiesta ed esecuzione di questi ordini. La procedura articolata, che dovrebbe tutelare la persona sofferente, ha avuto, come malaugurata conseguenza, negli ultimi anni, il moltiplicarsi di Tso violenti. Come per molte altre leggi in Italia, più che riformarla la legge voluta da Franco Basaglia andrebbe applicata ovunque compiutamente. A Trieste, dove la sua eredità ancora brilla, si arrabbiano se i centri di salute mentale fanno qualche ora in meno, a Milano sono aperti di regola qualche ora alla settimana, in orari d’ufficio, come se la crisi acuta rispettasse i festivi. Sono queste le situazioni che schiacciano i familiari e che fanno poi parlare di “rinchiuderli tutti”».

Franco Basaglia come giudicherebbe la riforma oggi?
«Per quanto ho conosciuto Franco Basaglia studiandolo, credo che inorridirebbe del piedistallo dove lo abbiamo collocato. E credo che lui stesso giudicherebbe che una rivoluzione che si fa istituzione abbia fallito. Nel libro Franco Basaglia non è un santino lo stimo tanto e per questo ne sottolineo anche gli inciampi. Quando arrivò a Gorizia nel 1961 cadde “in una notte nera“ quindi in una forma di depressione per quello che aveva trovato ma anche perché non sapeva in che direzione andare  trovandosi ai confini dell’Italia da solo. La sua biografia contempla anche il fallimento della carriera accademica, la prigione, e perfino una bocciatura al liceo classico. Questo mi sembra un messaggio bellissimo, soprattutto per i ragazzini: si possono fare grandi cose avendo avuto tanti inciampi».

La sofferenza mentale dei vip

Molti personaggi oggi parlano dei loro disturbi mentali: è d’aiuto ai pazienti?
«Da una parte è una cosa molto positiva: il tabù su questo disturbo in parte è stato scardinato, all’inizio con grande coraggio delle persone che l’hanno fatto – sportivi, personaggi dello spettacolo – di recente mi pare sia diventato un po’ una moda parlare di disturbi mentali. Non fa male sapere che anche le persone ricche o famose hanno problemi di ansia e di depressione. Ci fa sentire che se la cosa capita a noi non siamo soli. Mi turba quando viene banalizzato il disturbo mentale mescolando un esporsi che ha un valore positivo di condivisione con una certa faciloneria nel parlarne, o una banalizzazione dei temi. E poi ho notato che vengono allo scoperto i disturbi mentali di sportivi o di artisti che danno interviste, ma lei ha mai notata che ne parlino i politici. Finisce che il disturbo è sempre un po’ associato alla creatività: anche questo è un cliché.

Da una parte è positivo. E dall’altra?
«Crea un’altra segregazione invisibile perché banalizzando i sintomi di disagio chi ha problemi di psicosi resta ai marginiContinuiamo sempre parlare di disturbi d’ansia, di attacchi di panico, nessuno parla di schizofrenia, di dipendenza da alcol, da droghe, da sostanze. Si ci sono temi più glamour e altri meno facili da discutere», conclude Furlanetto.

Fonte: io Donna

You May Also Like

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *