Foto di Gerd Altmann da Pixabay
Riceviamo e pubblichiamo
di Anna Maria De Angelis
“Il luogo è desolato, appare abbandonato. Le porte sono chiuse (vuote?), tre clienti-pazienti attendono. Nella stanzina dell’accoglienza una operatrice ci dà i moduli da compilare per il Covid. Ci guardiamo intorno. Il silenzio ci parla.
Io e mio figlio siamo in un CSM per la visita con psichiatra e psicologo. Erano tanti anni che non lo accompagnavo, ma in questa occasione mi ha chiesto di stargli accanto. Solo la porta dell’ex DSM è spalancata su una stanza che non ha rumori. Ex DSM perché con l’accorpamento delle ASL da cinque a tre, a Roma, il DSM è in altro luogo, chilometri lontano dal territorio in cui viviamo. Alla faccia della Sanità di prossimità. Ricordo che solo pochi anni fa questo luogo non appariva così deserto, si incontravano utenti, familiari, operatori, associazioni…. e infatti il virus non è il solo e vero colpevole. So bene che molti operatori sono andati in pensione e non sostituiti, ma i sofferenti psichici non vanno in pensione.
Una domanda mi viene dal cuore e dalla rabbia: perché la Regione accredita le cliniche private e non potenzia le strutture pubbliche? Siamo o non siamo sempre noi a pagare? L’efficacia della cura, della presa in carico a chi continua ad essere demandata, a chi sarà sempre più demandata? In questo modo i luoghi della sanità pubblica in salute mentale perdono l’accoglienza empatica, il tempo della conoscenza, la ricerca del benessere del paziente-utente, il gruppo della discussione e del confronto tra operatori. E’ un giro dell’oca, un perverso giro dell’oca .
E’ ora della visita . Psichiatra e psicologo. Distanza sedie da Covid. La psichiatra e mio figlio si scambiano opinioni sulla terapia. Lo psicologo tace. Io mi permetto di raccontare quanto accaduto allo SPDC sul documento ricovero-dimissioni da inviare al luogo di lavoro. E’ il paziente che deve farlo. Riferisco del mio sbalordimento su tale situazione. Come si può chiedere in generale ad un utente sedato, impaurito, disorientato, terrorizzato di perdere il proprio posto di lavoro, di tornare a casa aprire il computer o recarsi alla posta per inviare una certificazione che non gli faccia perdere lo stipendio o altro? Affermo che a mio avviso in tale condizione c’è un chiaro rischio di tornare in SPDC o commettere qualcosa che faccia più male. Lo psicologo continua a tacere, la psichiatra è meravigliata di quanto io dica perché mio figlio sa di informatica. Io parlo di paura, sedazione, terrore di sbagliare. È altro.
Ci salutiamo cordialmente.”