a cura di Benedetto Saraceno
Il 10 ottobre si è celebrata la Giornata Mondiale della Salute Mentale. Ma l’Italia, culla del più potente e riuscito esperimento di liberazione dei malati di mente dalle catene della psichiatria, non solo rinnega sistematicamente la propria riforma e le proprie radici di patria dei diritti riconosciuti ai malati di mente ma, quotidianamente, svilisce, depotenzia, definanzia il servizio pubblico di salute mentale.
Dal 1992, per iniziativa della World Federation for Mental Health, il 10 ottobre si celebra la giornata mondiale della salute mentale. La giornata è dedicata ogni anno a un tema diverso e quest’anno il titolo delle celebrazioni è “La salute mentale è un diritto umano universale”. Già nel 1998 la giornata era stata dedicata ai diritti umani (Mental Health and Human Rights era il tema del 1998) ma quest’anno l’enfasi della giornata è sulla idea forte della salute mentale come diritto fondamentale.
In sostanza, si tratta di ribadire due aspetti di tale diritto: il diritto di ogni cittadino a godere della salute mentale e il diritto a ricevere cure che restaurino la salute mentale quando essa sia compromessa. Dunque, questo 10 ottobre celebriamo il diritto per tutti alla salute mentale: per coloro che per la povertà, per l’esclusione sociale, per la mancanza di accesso alla educazione e ai servizi sanitari, per le condizioni di precarietà esistenziale legate a ogni crisi umanitaria sia essa causata da eventi naturali oppure dall’uomo, per tutti insomma, perché tutti hanno diritto a mantenere la propria salute mentale.
Ma, anche, celebriamo il diritto di coloro che la salute mentale l’hanno compromessa. Il diritto a ricevere cure umane, efficaci, giuste, accessibili. Sono anni ormai che i rapporti dell’ufficio dei diritti umani delle Nazioni Unite denunciano il permanere di stigma e discriminazione nei confronti delle persone con qualunque tipo di sofferenza psicosociale e soprattutto denunciano la sistematica violazione dei loro diritti umani e civili, proprio nei luoghi che dovrebbero essere dedicati alla loro cura. Non dimentichiamo, inoltre, che le persone che sono diagnosticate con un disturbo mentale hanno una speranza di vita ridotta di più di dieci anni rispetto a soggetti che non soffrono di alcun disturbo mentale (1). E tale ridotta speranza di vita non si deve al disturbo mentale in sé bensì alle condizioni in cui queste persone vivono e vengono curate dai sistemi sanitari.
Scrive, Nasser Loza, presidente della World Federation for Mental Health: “garantire l’accesso ai servizi di salute mentale è un obbligo e una responsabilità dello stato…accedere a migliori condizioni di vita, a maggiore sicurezza personale, al cibo, a un rifugio, a una casa, sono tutte necessità connesse alla salute mentale”
Queste celebrazioni annuali trovano un moltiplicatore formidabile sia nelle iniziative della Organizzazione Mondiale della Salute connesse alla promozione della iniziativa Quality Rights, sia della Unione Europea che terrà una conferenza di alto livello a Bruxelles, ospitata da Stella Kyriakides, commissaria europea per la salute e la sicurezza alimentare. Questo evento riunirà centinaia di rappresentanti delle istituzioni dell’UE, dei governi nazionali, delle organizzazioni internazionali e di altri partner interessati per ascoltare esperti e persone con esperienze vissute e scambiare esperienze di buone pratiche.
E in Italia?
A Venezia, il 19 settembre è morto Bruno Modenese di quarantacinque anni. Ricoveratosi spontaneamente nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura il 16 settembre, due giorni dopo moriva per presunto arresto cardiaco ma il cadavere presentava naso e zigomi fratturati e un edema cerebrale. Due infermieri sono indagati. Non è la prima volta e da anni si denuncia la violenza di molti servizi psichiatrici di diagnosi e cura e delle procedure di ricovero coatto.
Il 4 agosto 2009 Francesco Mastrogiovanni, un maestro di 58 anni, dopo essere stato fermato per una presunta violazione al codice della strada, viene sottoposto a una caccia all’uomo, inseguito, catturato e rinchiuso nel reparto di psichiatria dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania e sottoposto a Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Ne uscirà 82 ore dopo morto, ucciso. Viene legato al letto di contenzione, un’agonia lunga 82 ore che è stata tutta registrata dalle telecamere di sorveglianza dell’ospedale. Il filmato, per volontà della famiglia, è stato reso pubblico.
Nel 2019, un uomo di 45 anni è stato trovato morto nel reparto psichiatrico dell’Ospedale Santissima Trinità di Cagliari. Sembra che l’uomo, ricoverato da qualche giorno, fosse contenuto e bloccato al letto perché ritenuto pericoloso.
Ma, ancora.
Nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Lamezia, un uomo di 39 anni, F.T. è stato trovato morto il 16 maggio 2016. Era stato condotto coattivamente nel reparto per essere sottoposto a Tso (trattamento sanitario obbligatorio). A Torino, un uomo di 45 anni, Andrea Soldi, è morto mentre i vigili urbani lo avevano catturato per sottoporlo a Tso. Sembra un arresto cardiocircolatorio, non è riuscito ad arrivare vivo in ospedale. Testimoni descrivono vigili urbani che l’hanno preso e stretto per il collo, finché non è caduto a terra privo di vita. A Carmignano Sant’Urbano (Pd), un ragazzo di trentatré anni, Mauro Guerra, è stato ucciso da un carabiniere durante un Tso. All’arrivo di alcuni carabinieri presso l’abitazione di Mauro, lui in preda allo spavento, ha tentato la fuga. Uno dei carabinieri ha sparato e l’ha ucciso. Perché sono intervenuti i carabinieri e non i sanitari del 118? Infine (ma ahimè non è la fine di questi episodi) è morto durante un Tso, un uomo di 39 anni, Massimiliano Malzone: era stato ricoverato nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale Sant’Arsenio di Polla, in provincia di Salerno.
Ma si potrebbe continuare perché la lista è lunga.
Scriveva Maria Grazia Giannichedda sul Manifesto del 24 maggio 2022: “La psichiatria violenta, che mai è andata fuori gioco, sta prendendo il sopravvento di nuovo. Ritorna forte l’ossessione del controllo in nome di una sicurezza che non ha mai evitato gli “incidenti”, come si diceva nei manicomi; dilaga, in parte complice il Covid, la miseria dell’affollamento, dei turni massacranti, dell’incuria verso la legalità e il rispetto delle persone. Ma quando gli Spdc funzionano come manicomi in sedicesimo è perché gli ambulatori territoriali usurpano il nome di centri di salute mentale, sono luoghi frettolosi di controllo che ignorano la vita delle persone e alimentano il circuito delle strutture dove metterle. È necessario investire sulla trasformazione di questo sistema di servizi per contrastare la psichiatria violenta”
Ecco, oggi l’Italia, culla del più potente e riuscito esperimento di liberazione dei malati di mente dalle catene della psichiatria, non solo rinnega sistematicamente la propria riforma e le proprie radici di patria dei diritti riconosciuti ai malati di mente ma, quotidianamente, svilisce, depotenzia, definanzia il servizio pubblico di salute mentale. Servizi ospedalieri sguarniti e sempre più violenti, servizi territoriali depotenziati del personale necessario e il sistema privatistico delle cooperative e delle strutture residenziali che si espande e divora uno dei più noti e celebrati gioielli della sanità italiana.
Il 10 ottobre di quest’anno ricordiamoci dei due diritti celebrati dalla giornata mondiale della salute mentale: il diritto di ogni cittadino a godere della salute mentale e il diritto a ricevere cure che restaurino la salute mentale quando essa sia compromessa. Ricordiamo che tali diritti sono troppo spessi violati nel nostro paese. Ricordiamo che più che di celebrazioni abbiamo bisogno di lotte di operatori e famigliari per difendere quei diritti violati. Lotte giuste e che non devono essere occasionali ma continuative e soprattutto devono essere determinate e dure.
Benedetto Saraceno, Lisbon Institute of Global Mental Health
Fonte: Salute Internazionale