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Gentile Direttore
ho letto con un certo interesse, e per certi aspetti con condivisione di giudizio, le considerazioni emerse nell’articolo di Bravi e Rocca pubblicato in QS in relazione alla composizione del Tavolo di Lavoro per la Salute Mentale presso il Ministero della Salute e all’assenza al suo interno di molte figure di operatori che compongono i servizi, di utenti e di familiari. Composizione, quella del Tavolo, che tuttavia, vale la pena qui ricordarlo, non hanno voluto né tantomeno deciso gli psichiatri.
Altrettanto interessanti mi sono parse le considerazioni relative alla tendenza dei servizi di Salute Mentale a configurarsi, con un certo appiattimento di visione e di approccio, in servizi di Psichiatria dove prevarrebbero un orientamento biologista e un riduzionismo trattamentale di stampo farmacologico. E’ un aspetto su cui i Dipartimenti di Salute Mentale si stanno interrogando da tempo e che, in molti casi, ha dato il via ad azioni migliorative e a percorsi di potenziamento mettendo in campo, risorse permettendo, strumenti nuovi in linea con le indicazioni EBM più avanzate quali, a titolo di esempio, gli interventi psicosociali di comprovata efficacia.
Mi sarei a questo punto aspettato l’avvio di un dibattito che potesse stimolare un’analisi critica della situazione in cui versano i Dipartimenti di Salute Mentale, a partire dalla carenza delle risorse (anche di psicologi) che ne segnano profondamente l’operato; un dibattito che potesse magari richiamare una rinnovata attenzione da parte dei decisori politici sulla condizione in cui versano oggi i nostri servizi e al tempo stesso proponesse uno slancio trasformativo dei Dipartimenti orientato al recupero di una visione più ampia, genuinamente biopsicosociale, non solo come cornice teorica di riferimento ma anche come traduzione pratica dell’operatività da mettere in campo.
E invece devo constatare come a fronte, ribadisco, di osservazioni critiche in buona parte condivisibili, vengano poi avanzate formule propositive decisamente meno convincenti, se non addirittura inappropriate, da cui non si può che prendere le distanze. Proporre, per far fronte all’innegabile fragilità dei Dipartimenti di Salute Mentale nell’erogare percorsi di psicoterapia, l’istituzione dei servizi di Psicologia quali linee organizzative separate, che peraltro sottendono un’articolazione a prevalente stampo monoprofessionale, non fa che ripresentare scissioni e discontinuità in un ambito che fonda prioritariamente la propria forza di intervento nella continuità e nella pluralità degli approcci. Una sorta di controriduzionismo, opposto a quello “psichiatrico”, che si pone in evidente contrasto con i modelli assistenziali più avanzati basati sull’integrazione operativa (soprattutto degli interventi terapeutici offerti) e organizzativa dei servizi.
Altrettanto fragile e poco convincente appare il riferimento alla letteratura scientifica sui Disturbi Mentali Comuni, quale richiamo più o meno esplicito all’istituzione di servizi di psicologia dedicati (e separati dai Dipartimenti di Salute Mentale). Fragile nelle premesse (laddove la letteratura scientifica, nell’ambito dei Disturbi Mentali Comuni, sancirebbe un primato della psicoterapia sul farmaco al punto da essere sostituito, come prima linea, dai trattamenti psicologici) e ancora meno convincente nella soluzione: quella appunto di creare dei servizi separati.
Innanzitutto perché le Linee Guida non dicono esattamente questo.
Le citate NICE, ad esempio, nell’ambito dei Disturbi Emotivi Comuni[1] identificano tre livelli di intervento a seconda dell’intensità dei sintomi, declinandoli nel cosiddetto modello stepped-care. A parte il primo livello, che si limita a indicare la necessità di identificazione e monitoraggio attivo per tutti i tipi di disturbi, di fatto assegna un ruolo prioritario, anche se non esclusivo, alla CBT limitatamente alle forme sottosoglia, lievi e moderate (livello 2) mentre pone sostanzialmente sullo stesso piano psicoterapia e trattamento farmacologico per tutte le forme di Disturbi Mentali Comuni di intensità moderata-severa (livello 3), dalla depressione, all’ansia generalizzata, ai disturbi di panico, alle sindromi ossessivo-compulsive. Pare cosa ben diversa dal considerare tout court i trattamenti psicologici come interventi di prima linea “nei” Disturbi Mentali Comuni. Semmai questo primato andrebbe circoscritto a quelli a sintomatologia sottosoglia o lieve-moderata.
Sempre le Linee Guida NICE sul Disturbo d’Ansia Generalizzato[2], mettono sullo stesso piano CBT/tecniche di rilassamento con il trattamento farmacologico (Step 3) rispetto ai quadri che non abbiano risposto all’approccio autoguidato self-help o alla psicoeducazione, raccomandando di basare la scelta sulla preferenza della persona poiché non c’è evidenza che una delle due tipologie di intervento sia migliore dell’altra.
Analoga raccomandazione è contenuta nelle Linee Guida APA per il Disturbo di Panico[3] (There is insufficient evidence to recommend any of these pharmacological or psychosocial interventions as superior to the others, or to routinely recommend a combination of treatments over monotherapy).
E nuovamente, le Linee guida NICE per la Depressione[4], pur raccomandando di non usare routinariamente il farmaco per le forme lievi (che pure resta indicato anche in quest’ambito per una serie di sotto-specificazioni tutt’altro che circoscritte[5]) esplicitano come tutti gli interventi descritti, tra cui espressamente l’intervento farmacologico e le psicoterapie strutturate, possono essere usati come trattamenti di prima scelta, indicando come preferibile quello meno intrusivo e meno dispendioso in termini di risorse, a partire dall’autoaiuto-guidato.
Non si voleva in questi richiami della letteratura scientifica rievocare la solita e stantia contrapposizione tra psicoterapia e farmaco, né tantomeno limitare alla scelta di un certo tipo di trattamento il concetto di salute mentale che ha invece traiettorie e orizzonti ben più ampi. E’ tuttavia importante evidenziare come le Linee Guida in sintesi richiamino costantemente l’integrazione dei trattamenti e prefigurino modelli di approccio complessi che sappiano affrontare i problemi secondo la logica dell’intensità di cura su livelli di intervento in stretta continuità tra loro. E’ su questi assunti, squisitamente scientifici, che dovremmo essere capaci di sviluppare modelli organizzativi orientati alla multidisciplinarietà, fondati sulla continuità degli approcci, capaci di dipanarsi in percorsi di cura che sappiano spaziare dalle forme lievi a quelle più gravi, dai setting estensivi a quelli dell’acuzie finanche a quelli dell’urgenza/emergenza. L’alternativa è quella di frammentarci in mille parti, magari chiamate elegantemente “specificità organizzative”, ciascuna volta a coltivare una propria visione (inevitabilmente riduttiva) e un proprio approccio, specializzando servizi orientati a erogare un certo trattamento, per un certo disturbo e, magari, per quel livello di intensità (step) di quello specifico disturbo…
E’ ora di uscire da questa logica. E’ ora di andare oltre la Psichiatria e oltre la Psicologia come Aree separate per recuperare un’idea di Salute Mentale ampia, organizzativamente integrata e scientificamente fondata.
Fonte: quotidiano sanità