“RAGAZZE INTERROTTE” CI HA MOSTRATO QUANTO SIA SOTTILE LA LINEA TRA “NORMALITÀ” E DISAGIO MENTALE

di Lucia Brandoli

La vita è complessa, a volte indecifrabile fino a risultare in alcuni casi ingestibile, ed è inutile negarlo perché questo alla fine dei conti è ciò che ci permette anche di meravigliarci. A tutti è capitato almeno una volta di sentirsi soggiogati dagli eventi, di mettersi in discussione, di non piacersi, se non di provare una vera e propria repulsione verso ciò che si è, di non capire il mondo e sentirsene esclusi, sopraffatti. In questi casi e in altri – al di là di ciò che la pressione sociale ci spinge a credere – è necessario prendersi una pausa per rimettere in ordine i significati e le forze del mondo e del nostro essere. Ragazze interrotte, film del 1999, con Winona Ryder e Angelina Jolie (che vinse l’Oscar come miglior attrice non protagonista), sembra ricordarci proprio questo, quanto sia difficile esistere, costruirsi; quanta volontà, coraggio, generosità e comprensione servano per riuscire ad attraversare il “bardo”, quella dimensione intermedia di transizione, sul confine tra morte e rinascita.


Il film si rifà all’omonima autobiografia di Susanna Kaysen (interpretata da Ryder), uscita nel 1993, in cui la scrittrice – figlia del primo consigliere di John F. Kennedy – racconta della sua permanenza all’età di diciannove anni in un istituto psichiatrico privato – e riservato a persone estremamente benestanti – alla fine degli anni Sessanta a causa di una depressione e poi di una diagnosi di disturbo borderline della personalità. Il titolo originale del libro – Girl, interrupted – riprende quello del dipinto di Jan Vermeer molto amato da Kaysen – “Girl interrupted at her music” – e riporta subito al tema di sottofondo della storia, ovvero il potere che ha la società di influire sul percorso evolutivo dell’individuo, interrompendolo, deviandolo, distraendolo. Questa storia ci mostra come fin dalla nascita nessun essere umano sia una monade, ma come ciascuno di noi sia, volente o nolente, in relazione con gli altri e abbia quindi una responsabilità su di loro – e quanto in un tessuto sociale democratico e paritario sia tenuto a riconoscerla e ad assumersi il peso dei propri comportamenti.


Donald Winnicot, famoso pediatra e psicoanalista, riteneva che l’incontro con l’altro distrugge sempre il nostro sé, per questo per alcuni di noi diventa insostenibile, e in alcuni momenti è necessario ritirarsi in solitudine proprio per ricostruire di volta in volta quel sé, il nostro nucleo originario, irraggiungibile all’esterno e sacro, che ricomposizione dopo ricomposizione magari cambierà. L’identità, infatti, è dinamica, e quando si cristallizza o si amplifica finisce per rappresentare un ostacolo all’esistenza. La storia sembra suggerire che a volte venire distolti da ciò che per inclinazione si sarebbe portati ciecamente a essere può rivelarsi fondamentale, arricchirci, se non proprio salvarci. Studi recenti, non a caso, hanno messo in luce un fenomeno interessante legato all’introspezione sul sé, la capacità immaginativa e al tempo stesso diversi disturbi mentali. Susanna appare infatti come una ragazza fragile, piena di insicurezze, che si rifugia nel suo universo mentale e nella scrittura – quella che riconosce essere la sua vocazione, ma di cui nessuno intorno a lei è disposto a riconoscere il valore. Per tutti gli altri quella che è la sua ragione di vita appare come una sciocca velleità e ciò contribuisce a minare ulteriormente la sua identità, impedendole di trovare un luogo nel mondo. Questo per dire che a volte determinati comportamenti possono essere positivi o negativi anche rispetto alla situazione in cui il soggetto è immerso.


Se ancora oggi alle persone con disturbi psichiatrici è ingiustamente riservato una sorta di stigma nato dal sospetto e da una sorta di paura, Susanna finisce per incontrare quelle che diventeranno le sue prime vere amiche proprio nella clinica, riuscendo a costruire le relazioni positive che non era mai stata capace di mettere in piedi prima, nel mondo delle persone “sane”. Senza mai scivolare nella retorica e nel buonismo indulgente, il film ci mostra come Susanna riesca a scoprire cosa vuol dire avere un legame sincero con l’Altro, senza esserne distrutta, spazzata via, anche se questo Altro è considerato il grado zero della società. Anzi, Susanna vede nelle sue compagne malate – che si offrono come un’ironica e commovente carrellata di casi umani, in cui risulta difficile non identificarsi almeno un po’ – delle persone per certi aspetti preferibili a quelle che si ritengono migliori di loro. Susanna, rinnegata dalla famiglia e catapultata da un momento all’altro dal mondo dei “giusti” a quello degli “sbagliati”, capisce che ogni individuo – per quanto spezzato, rotto, mancante (come a ben vedere ciascun essere umano è) – ha qualcosa da dare. Come si dice alla fine del film, a volte, l’unica differenza tra la presunta normalità (che non esiste) e una patologia diagnosticata è solo l’intensità del problema, quanto una nostra caratteristica influisce sull’insieme della nostra esistenza.


Tutta la storia ha come sfondo il corpo a corpo tra la percezione interna dell’individuo e la presunta oggettività del mondo, che in alcuni momenti finiscono per scontrarsi irrimediabilmente, in altri per risuonare all’unisono. Un altro punto fondamentale toccato dal film è infatti l’ambiguità di alcune diagnosi e della descrizione stessa di diversi disturbi. Nel corso della trama si intravedono le discriminazioni che la società dell’epoca riversava su determinati individui solo per metterli ai margini e screditare il valore della loro parola – come per esempio succedeva in modo sistematico con le donne e gli afrodiscendenti. Si capisce allora come alcune patologie non fossero affatto malattie vere e proprie ma semplici divergenze dalla strada imposta da una società moralista, rigida, bigotta e oscurantista. Queste discriminazioni finivano poi per fare da trigger per lo sviluppo di altre gravi problematiche psicologiche. In particolare è il caso di Lisa (interpretata magistralmente da Jolie): narcisista, istrionica e antisociale. Una donna sfrontata, magnetica, ribelle, manipolatrice e coraggiosa, con una forza e una personalità che lascia supporre che se fosse nata uomo non le sarebbe stata fatta pesare e l’avrebbe anzi portata a ruoli di potere. Quello di Lisa è infatti un profilo psicologico che – come è stato fatto notare dagli psicologi Paul Babiak e Robert D. Hare in Snakes in Suits: When Psychopaths Go to Work – spesso è stato riscontrato nella figura di grandi leader carismatici.


Oggi, al di là delle diagnosi psichiatriche, riguardando il film è facile per una donna immedesimarsi in Lisa, perché come lei sarà successo spesso di subire uno sguardo oggettificante e trovarsi cucita addosso un’immagine non corrispondente neanche da lontano al proprio vero sé individuale. L’oggettificazione è infatti il punto di partenza per qualsiasi violenza, più o meno grave che sia. Lisa è forte, spregiudicata, affascinante, selvaggia, la società di quegli anni – proprio sul confine della rivoluzione culturale portata dal ‘68 – non tenta nemmeno di riportarla sulla retta via, perché ormai è considerata una deviata, è lo specchio di tutte le pulsioni, le ombre e le violenze della società stessa, che non desidera scrutarsi, e non vuole mai vedere la sua autentica immagine, perché sarebbe insostenibile e la manderebbe in frantumi. È Lisa che il mondo addita come cattivo esempio per Susanna: ecco cosa potresti diventare, vuoi davvero essere come lei? Lisa sa che ormai il mondo si aspetta questo da lei, e quasi per non disattenderne l’ordine e le aspettative non perde occasione di impersonare il ruolo della cattiva, dell’antagonista. Susanna, però, pur temendola, la ama, perché è il suo alter ego. Sa che nonostante le apparenze sono molto più simili di quanto tutti credano. Eppure mentre Susanna si ricostruisce Lisa continua a essere pura distruzione, di sé e di quelli che le stanno intorno.


A un certo punto, alla fine della storia Lisa denuncia la differenza d’attenzione e di cura che il mondo riserva a Susanna e che invece non si è mai degnato di riservare a lei, come se fosse irrecuperabile o non se la meritasse. Una sorta di stigma. Nessuno ha mai voluto vedere oltre i suoi comportamenti disturbanti, nessuno le ha mai dato l’occasione di cambiare, credendo nel suo miglioramento. Questa è forse la parte più toccante del film. Perché si vede tutta la disperazione, l’invidia è la rabbia rassegnata di un individuo che non è mai stato “visto”, al di là delle sue caratteristiche. Kaysen riesce così a mostrare Lisa, la vera invisibile, e a darle voce.

Ragazze interrotte ci mostra quanto la pressione sociale, nel bene e nel male influisca sulle nostre vite, ma quando al tempo stesso la possibilità di instaurare un dialogo e un contatto con gli altri possa nutrire e portarci a sviluppare una volontà interiore sopita, capace di darci una direzione e farci evolvere. Per questo è fondamentale trovare le persone giuste, perché le persone fanno la differenza del nostro stare al mondo.

Fonte: THE VISION

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