di Luca Negrogno e Riccardo Ierna
Come ciclicamente avviene, recenti fatti di cronaca hanno riportato alla ribalta un dibattito coevo all’approvazione della legge 180/1978: come definire il rapporto tra pericolosità sociale, malattia mentale, cura, custodia? A fronte delle posizioni più reazionarie, che instancabilmente ripetono il ritornello ideologico della malattia del cervello inevitabilmente connessa all’irresponsabilità, all’incomprensibilità e alla violenza, quindi da sottoporre a custodia medico-psichiatrico-giudiziaria indipendentemente dalla volontà delle persone trattate – una posizione su cui convergono e si mescolano vari interessi: da quello corporativo professionale medico a quello delle cliniche neuropsichiatriche private, da quello dei media e dei politici ossessionati del mostro dell’insicurezza a quello del privilegio razzista e patriarcale nel suo complesso, sempre interessato ad avere a disposizione astruse teorie sui “raptus” e su “personalità intrinsecamente violente” per nascondere la verità delle oppressioni di razza di e di genere – ciò che più preoccupa è la difficoltà ad esprimere una posizione coerente da parte dell’altra fazione, quella che dovrebbe essere la nostra. La mancata elaborazione degli sviluppi della teoria e della prassi del movimento antistituzionale, arbitrariamente cristallizzata al momento dell’approvazione della legge di riforma psichiatrica, non ha consentito di approfondire le domande che Basaglia e il suo gruppo con la loro opera avevano solo aperto – e che sono state invece monumentalizzate, come se fossero risposte valide per sempre e come se fossimo sempre di fronte allo stesso problema. All’ombra di questa monumentalizzazione è diventato impossibile vedere le mediazioni transitorie, le indicazioni di lavoro futuro, gli orizzonti di senso più complessivi che, una volta assestato il primo colpo al manicomio, avrebbero dovuto portarci a nuove pratiche per contrastare i nuovi problemi che sarebbero sorti sul territorio, nell’ospedale, nell’università, nella società nel suo complesso. E’ importante provare oggi a riaprire quelle questioni.
Certamente la 180 non avrebbe dovuto risolversi in una corrispondenza meccanica tra la risposta alla crisi e la sua gestione nei reparti psichiatrici ospedalieri. Tale forzata identificazione, che si declina operativamente in un “governo” esclusivamente sanitario e securitario del binomio pericolosità/malattia, ha eluso le domande che la problematizzazione di questo binomio era invece destinata ad aprire, vale a dire la costruzione di una elaborazione pratica, epistemologica e organizzativa del rapporto tra cura e gestione sociale della follia. La “predominanza medica” nella gestione della crisi, connaturata a vari livelli con alcune tendenze di tipo securitario, è stata il frutto di un’astratta immissione della psichiatria nella medicina; tale inserimento, nella sua astrattezza formale, non ha dato luogo ad una più profonda rielaborazione dei fondamenti epistemologici della medicina stessa, ma è rimasto un orizzonte vuoto, entro il quale si sono sviluppate diverse conseguenze in contrasto con la posizione di Franco Basaglia, che nel 1979 considerava il Trattamento Sanitario Obbligatorio una “mediazione transitoria” verso configurazioni extra sanitarie ed extra ospedaliere della risposta alla crisi.
La prima conseguenza di questa mancata rielaborazione è stata lo svuotamento del Tso come istituto di garanzia e la sua trasformazione pratica in un vuoto dispositivo amministrativo e di gestione dell’ordine pubblico. Una conseguente problematica è quella che riemerge ciclicamente nel dibattito sui rapporti tra salute mentale e giustizia penale. Se è vero, come scrive Mario Colucci (Aut Aut n. 398/2023) che la regressione nella cultura penale della “responsabilizzazione” ha provocato un irrigidimento del rapporto tra giustizia e psichiatria, favorendo una indebita pervasività di tutele legali, posizioni di garanzia e prescrizioni penali di trattamenti evidence based, la reazione di una certa salute mentale “progressista”, che rivendica una discontinuità tra “cattiva psichiatria” e “buone pratiche di salute mentale” si è assestata su posizioni difensive, ribadendo che la “buona salute mentale” può essere purificata dal mandato di controllo sociale connaturato alla psichiatria e quindi debba essere sollevata istituzionalmente dallo svolgere funzioni di gestione della “devianza”. L’individuazione di profili di personalità “criminali” identificati attraverso disturbi come l’antisocialità, il cui trattamento debba essere posto fuori dai servizi di salute mentale territoriali, risponde a questa volontà di delimitazione, attraverso un’azione “esterna”, di un campo proprio, specifico, modellato sul fantasma di una cura “buona” e tecnicamente possibile senza contraddizioni. Se da una parte è corretta la posizione che rivendica il superamento della “non imputabilità” nel Codice Penale e della indebita attribuzione alla psichiatria della gestione di condotte di cui si svuoterebbe così il senso storico e soggettivo, non si può non notare come questa posizione scotomizzi una serie di problemi sociali che oggi proprio nei dispositivi penali vanno ad addensarsi. Franco Rotelli, facendo anche eco agli sforzi di Mario Tommasini in tema di detenzione e riabilitazione, ci ricordava nel 1984 che bisogna “tagliare ancora la testa al re”, di quanto cioé fosse necessario agire per “liberarsi dalla necessità del carcere” moltiplicando pratiche sociali preventive, ricomponendo i bisogni dei gruppi più deboli della popolazione, mettendo in questione la violenza della società per evitare che il discorso si focalizzi artificiosamente sulla pericolosità degli individui devianti e sulla sua presunta gestione tecnica.
La complessità della situazione attuale si evidenzia nella centralità del tema degli “autori di reato” in molti servizi. Da una parte, la legge 81 ha enfatizzato la problematica delle persone in attesa di valide alternative alla progressiva chiusura degli OPG: sono ancora molte le persone in lista d’attesa per la Rems che vivono in strutture residenziali, ai domiciliari, in carcere. Essere collocate in altre strutture “territoriali” per queste persone significa essere soggette ad “obblighi di cura” disposti dal giudice in contesti gravemente inappropriati. La sproporzione in termini numerici tra coloro che sono affidati alle Rems e le persone in lista d’attesa è ancora troppo alta considerando la complessità della gestione della complessità delle situazioni a livello territoriale e la logica dell’aumento dei posti letto non si presenta come una possibile forma di soluzione del problema (si veda la recente intervista a Federico Boaron sulle REMS). Come influisce questo sulle pratiche dei servizi territoriali, sui regolamenti delle strutture residenziali socio sanitarie, sulla vita nelle case? D’altra parte dobbiamo rilevare che esistono piccole aree virtuose di esperienza a livello territoriale che hanno esaurito progressivamente la funzione delle Rems e rispetto a cui si inizia ad evidenziarsi che l’integrazione degli autori di reato nel servizio sanitario abbia esercitato una pressione sulle pratiche giudiziarie, indicendo i giudici a comminare pene meno afflittive, a integrare con più attenzione misure alternative alla detenzione e progetti terapeutico-riabilitativi dentro e fuori il sistema penitenziario.
Se questo è accaduto, anche se ancora in minima parte, andrebbero approfonditamente studiate queste esperienze locali per definire in modo universalistico le forme della loro riproducibilità, le condizioni istituzionali, le pratiche innovative che hanno fatto emergere nell’ambito del rapporto tra cura e riabilitazione per gli autori di reato. Laddove, nella maggioranza dei casi, processi di questo tipo non si sono verificati, è emersa una situazione complessiva di affaticamento e abbandono istituzionale in virtù della quale sembra che, con il superamento degli Opg dopo la legge 81, il sistema penale abbia complessivamente teso a scaricare sul sanitario – già in affanno per assenza di risorse e assenza di chiarezza nel mandato – le situazioni più ingestibili provenienti dagli istituti penali. Da qui la richiesta, anche accolta dalla Corte Costituzionale, che il penale si facesse carico di nuove strutture, a gestione mista con il sanitario, differenziate dai percorsi territoriali gestiti solo dai Dipartimenti di Salute Mentale. Questa posizione è in sé corretta se viene interpretata come “mediazione transitoria” ma la nostra elaborazione sui rapporti tra salute mentale e sistema penale non può limitarsi a questo.
Se infatti da una parte una certa cultura “progressista” sembra usare come struttura argomentativa la “riaffermazione della necessità del carcere”, che invece dovremmo cercare di contrastare e superare, nel sistema penitenziario in molti casi si moltiplicano gli utilizzi del sapere psichiatrico in ottica di controllo, patologizzazione, silenziamento del conflitto, dei bisogni e della soggettività (si veda a proposito l’opera di Sterchele (2021) sulla sommersione psicofarmacologica in carcere). Le vicende delle rivolte del 2020, con il conseguente drammatico corredo di oscure morti e torture, che sono avvenute in un clima di “Città silente” (Manzoli, 2021) mostrano come il carcere stesso, riaffermandosi come luogo di gestione medicalizzata e di custodia, ispessisca l’opacità e la distanza dai contenuti di cura e riabilitazione a cui la nostra azione dovrebbe orientarsi.
Oggi, quando da più parti si riconosce la debolezza del modello di “salute mentale comunitaria” nato sulla scorta delle esperienze antistituzionali storiche e che per una trentina d’anni ha cercato di accreditarsi come garante della continuità di tali esperienze, l’unico modo per rimettere in campo una pratica antistituzionale sta nel guardare ai limiti di quella forzata assolutizzazione. Questo non nell’ottica di andare “oltre la 180” come suggeriscono alcuni, ma per riaprire nell’attualità di oggi la radicalità delle questioni poste dalla 180 e dall’evoluzione della salute mentale (anche in rapporto al sistema penale) negli ultimi quarant’anni in questo paese. In assenza di un pensiero critico (e autocritico) e di una rielaborazione storica dell’esperienza di punta del movimento antistituzionale – quella dei servizi territoriali di salute mentale di Trieste – ormai travolta dal progressivo svuotamento del servizio pubblico, dalla scomparsa di una visione politica del problema psichiatrico negli operatori e dall’irreplicabilità delle vecchie forme emancipative dell’impresa sociale nell’attuale configurazione del welfare mix all’italiana, possiamo forse aprire una nuova fase. Una fase in cui energie nuove, non più subalterne ad alcuna “monumentalizzazione” (Di Vittorio, Cavagnero, 2019) del passato, accettino di misurarsi sul campo dei saperi, delle pratiche e della partecipazione politica con gli interrogativi che la legge 180 poneva e continua a porre ancora oggi.
Fonte: Studi Questione Criminale