Secondo lo psichiatra Vito D’Anza la salute mentale nel nostro Paese si sta progressivamente allontanando dal modello basagliano, studiato e copiato in tutto il mondo. Molte strutture, nonostante la Legge 180 e le diverse norme regionali, praticano ancora oggi attività di contenzione, sia fisica che farmacologica. Per invertire questa tendenza serve una mobilitazione collettiva, che coinvolga non solo il mondo medico, ma anche quello politico e culturale. Continua l’inchiesta di VITA nel mondo della psichiatria italiana
In Italia, ancora oggi, su 323 Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), solo una decina sono “no restraint”, cioè liberi dalle azioni di contenimento fisico e farmacologico del paziente in crisi. Uno di questi reparti si trova a Pescia, in provincia di Pistoia, ed è diretto dallo psichiatra Vito D’Anza. Quest’ultimo, membro del Forum Salute Mentale, che riunisce esperti del mondo della deistituzionalizzazione da tutta la penisola, denuncia la situazione di grave affanno dei servizi e la preoccupazione degli operatori più vicini al modello basagliano, da cui pare che la sanità italiana stia prendendo sempre più le distanze.
Dottore, qual è la tendenza che lei riscontra, oggi, nel mondo della salute mentale italiana?
Siamo in una situazione di involuzione. Ovviamente questo degrado avviene a velocità e in modalità diverse. I territori che erano più avanzati rimangono più avanzati rispetto agli altri, ma la regressione si riscontra ovunque. Dappertutto c’è una riduzione dei servizi, dovuta anche a scelte politiche che portano a prediligere strutture residenziali anziché attività territoriali forti. Non voglio dire che le strutture residenziali non possano essere utili in qualche caso, ma devono lavorare assieme ai servizi pubblici di salute mentale, senza diventare una soluzione generalizzata.
Anche in Toscana, dove lei lavora, la situazione è la stessa?
In Regione i servizi sono diffusi abbastanza capillarmente già dagli anni ‘80, grazie all’azione dell’allora assessore Bruno Benigni. Il loro stato, oggi, è abbastanza a macchia di leopardo, come del resto succede in tutta Italia. Questo fatto è legato a un sostanziale disinteresse da parte della politica, cominciato dalla fine del secolo scorso, che ha portato ogni servizio ad agire autonomamente. In Toscana, nonostante in ben due Piani sanitari regionali ci sia scritto «È fatto divieto tassativo di ogni forma di contenzione fisica», ci sono strutture in cui si continua a portare avanti metodi antiquati.
E come mai questo accade, se ci sono direttive che lo vietano?
Perché non sono mai state fatte verifiche di quello che effettivamente succedeva all’interno dei servizi. Chi continua a utilizzare la contenzione, nella pratica, non ha alcun tipo di conseguenza.
Eppure non legare è possibile.
Certo e gli Spdc come quello di Pescia lo dimostrano. Dal 2005, non si lega nessuno ai letti. Non c’è bisogno di essere super eroi per non praticare la contenzione.
Insomma, pare che ci si stia allontanando sempre di più dalle idee di Franco Basaglia.
Io credo che la Legge 180 – e di conseguenza la 833 (la norma che ha istituito il Servizio sanitario nazionale, ndr), in cui è confluita – sia una riforma che è stata tradita, dalla politica in primis e poi dagli operatori. La prima avrebbe dovuto avere un ruolo di indirizzo, che non ha assunto minimamente, e i secondi si sono mossi ognuno per conto proprio.
Come si può attuare una rivoluzione come quella che prescrive la 180 se gli operatori hanno continuato e continuano a essere formati con programmi precedenti alla riforma? Non mettere mano al mondo accademico, a mio parere, è stato un errore gravissimo.
Ma qual è il motivo per cui la 180 è a rischio?
Credo che le ragioni siano diverse. Oggi penso ci sia un grosso interesse verso la privatizzazione. I privati non sono di per sé il male, ma dovrebbero lavorare in sinergia con i servizi, non sostituirsi a essi. Basti pensare al fatto che le strutture residenziali si stanno moltiplicando, alla faccia dei discorsi a favore della territorializzazione e della prossimità che si facevano dopo la pandemia. Sembrava che il Pnrr avrebbe dato una mano in questo senso, ma al suo interno non si cita mai la salute mentale, a cui non arriveranno fondi, se non delle briciole. In passato, le motivazioni dell’allontanamento dai metodi basagliani erano altre.
Per esempio?
Sciatteria e opportunismo. Quando è stata approvata la Legge 180 non c’era grande convinzione da parte della politica. Gli operatori facevano resistenza al cambiamento, perché non era stata aggiornata anche la formazione universitaria. Basaglia e i basagliani non hanno mai avuto una cattedra e, ancora adesso, il modello che viene insegnato a chi impara la psichiatria è quello clinico – biologico. Non che questo approccio sia completamente da buttare a mare, ma non può essere quello predominante all’interno di un servizio di salute mentale. Come si può attuare una rivoluzione come quella che prescrive la 180 se gli operatori hanno continuato e continuano a essere formati con programmi precedenti alla riforma? Non mettere mano al mondo accademico, a mio parere, è stato un errore gravissimo.
Quindi si tornerà a un modello medicalizzante e incentrato sugli ospedali?
Diciamo che gli elementi che abbiamo possono significare una sconfitta della riforma e della chiusura dei manicomi. La scelta di dismettere gli ospedali psichiatrici è un primato italiano e rimane ancora caso unico a livello internazionale. A volte io stesso mi chiedo se ne è valsa la pena, vista la situazione attuale. Alla fine la mia risposta è sempre positiva: nei momenti di apice i manicomi della Penisola avevano più di 100mila internati in totale. La riforma ha cambiato il destino di decine di migliaia di persone. L’obiettivo finale, però, non era solo questo, era una revisione più ampia del modello di presa in carico.
Che oggi non è più possibile?
Si dovrebbero creare di nuovo le condizioni che hanno portato all’approvazione della 180. All’epoca l’interesse non era limitato al mondo della psichiatria, si era creata una sinergia tra più mondi, da quello medico a quello culturale, passando per quello politico. Tutti parlavano di deistituzionalizzazione, tutti esprimevano la propria opinione, c’era fermento, interesse. Certo, non ci si può arrendere, buttando via 50 anni di storia e di impegno, quello che è avvenuto e quello che potrebbe avvenire. È però una lotta che deve riguardare i diritti umani e politici e non deve essere confinata all’ambito medico.
Fonte: VITA