di Gioachino Toni
Quella proposta da Piero Cipriano – «psichiatra, ovvero terapeuta moderno occidentale e scientifico, per così dire, almeno nel senso con cui si intende la scienza galileianamente», anarchico e basagliano –, è indubbiamente una storia della psichiatria singolare, una storia che, oltre a far dar di spalle ai suoi ambienti più reazionari, farà storcere il naso anche a qualche onesto basagliano che fatica a fare i conti con la metamorfosi chimica che ha subito il manicomio e, soprattutto, con le potenzialità di quelle sostanze che possono espandere le coscienze anziché restringerle.
Al pantheon della psichiatria appartengono sicuramente Philippe Pinel, che inaugura il manicomio fisico, e Franco Basaglia, che lo chiude, ma Cipriano vi inserisce anche Timothy Leary che, pur non essendo psichiatra, ha di fatto lavorato ai presupposti per porre fine all’epopea della psichiatria. Questo ultimo inserimento basta a trasformare la storia della psichiatria proposta dall’autore in controstoria e un posto in questa spetterà, sostiene Cipriano, a chi saprà darle fine ricorrendo al pharmakon psichedelico.
La vita del manicomio concentrazionario prende il via, un secolo dopo l’editto francese che nel Seicento aveva concentrato presso il Grand Hôpital Géneral parigino tutti i devianti, con la distinzione e la separazione operata da Philippe Pinel tra fuorilegge, destinati al carcere, e folli, concentrati nell’ospedale psichiatrico. Tale epopea concentrazionaria si chiude con Basaglia che riesce a chiudere il manicomio di mura e sbarre separato dal resto della società.
Nel corso degli anni Sessanta – in un clima culturale segnato dalla pubblicazioni di opere come Storia della follia (1961) di Michel Foucault, Asylums (1961) di Erving Goffman, I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, Il mito della malattia mentale (1961) di Thomas Szasz; L’io diviso (1961) di Ronald Laing – Basaglia trova la forza per fare quello che né i padri nobili della psichiatria psicodinamica (Freud, Joung, Adler e Janet) né i fenomenologi (Jaspers, Minkowski, Binswanger ecc.) hanno mai fatto. Convintosi che una società civile debba saper accettare i diversi stati di coscienza, ordinari o extra ordinari che siano, giunge alla conclusione che le persone internate nei manicomi debbano essere al più presto restituite al mondo comune.
A partire dalla fine degli anni Sessanta Basaglia matura la convinzione che però non basta mettere in discussione i soggetti che compongono il manicomio (medico, infermiere e paziente): occorre cambiare la società che li ha rinchiusi affinché possa riaccoglierli a tutti gli effetti. Mosse dal convincimento che le cure (volontarie) debbano restare nelle società civile e non in luoghi separati, le battaglie portate avanti da Basaglia nel corso del decennio successivo ottengono la chiusura per legge del manicomio fisico ma palesano anche come, una volta riammessi in società, gli ex reclusi siano drammaticamente costretti a fare i conti con i bisogni primari comuni a ogni essere umano: relazioni, affetti, abitazione e autonomia economica. Pur percepita dal gruppo di Basaglia come un compromesso, la Legge 180 del 1978 rappresenta probabilmente il massimo ottenibile all’interno di quel contesto storico-culturale; per una riforma più radicale sarebbe servita una società più avanzata.
Al manicomio di mura e sbarre1 si è via via sostituito il manicomio chimico2 somministrato al paziente attraverso psicofarmaci grazie al sostegno di una “macchina diagnostica” che ha la sua bibbia nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders3.
Mentre la comunità medica già nella prima metà degli anni Cinquanta dispone di antibiotici, anestetici, antistaminici, antidiabetici, antiepilettici, sedativi ecc., gli psichiatri si sentono disarmati nell’affrontare la sofferenza mentale. È dalla frustrazione provata a causa dell’incapacità di ottenere terapie efficaci, dal desiderio di disporre di medicinali efficaci al pari del resto della comunità medica che prende il via l’era della psichiatria chimica.
La rimonta della psichiatria prende il via nel 1949, quando Hanri Laborir, dopo aver somministrato ai sui pazienti la prometazina (un antistaminico), nota la sua efficacia nell’alleviare il dolore. Ben presto viene sintetizzata la clorpromazina che, essendo capace di rallentare il sistema nervoso centrale, a partire dai primi anni Cinquanta, viene somministrata nei manicomi ai pazienti psicotici rendendoli atarassici. Nel giro di un decennio la psichiatria si è trovata a poter disporre di tre farmaci capaci di fronteggiare altrettante importanti dimensioni psicopatologiche: la clorpromazina, destinata ai malati aggressivi, maniacali e psicotici; il clordiazepossido, per gli ansiosi; l’iproniazide, per i depressi.
Il successo commerciale della clorpromazina ha accelerato la ricerca tanto che nel giro di poco tempo sono state sintetizzate le principali classi di neurolettici di prima generazione, poi sostituiti, negli anni Novanta, dai neurolettici di seconda generazione, gli antipsicotici atipici. I risultati della rivoluzione chimica dovrebbero però far riflettere sulla sua efficacia: a fronte dei 267.000 pazienti ricoverati nei manicomi statunitensi con diagnosi di schizofrenia nel 1955, agli albori dell’epopea psicofarmacologica, si è passati a 2.500.000 casi nel 2010. Il bacino a cui si sono indirizzati gli psicofarmaci si è allargato a dismisura dal momento che la macchina diagnostica si è fatta prendere dall’urgenza burocratica ed economica di considerare malattia qualunque disagio psichico con conseguente prescrizione farmacologica.
Mentre procedeva questa storia della psichiatria, passata dalle mura del manicomio fisico agli psicofarmaci neurolettici imposti dalla riscrittura farmaco-orientata dei manuali diagnostici, si è sviluppata anche un’altra storia, quella della psichedelia occidentale che può essere riassunta nella successione di tre fasi principali. Una “pionieristica”, che ha preso il via sin dai primi anni Quaranta, scandita dalle ricerche di personalità come Albert Hoffmann, Aldous Huxley e Timothy Leary, a cui la psichiatria dell’epoca ha, per un certo periodo, guardato con interesse. Un “medioevo”, derivato dalla messa al bando negli anni Settanta delle molecole psichedeliche, segnato dalla pratica clandestina di personaggi come Leo Zeff e dall’ostinata controinformazione portata avanti da Terence McKenna. Un “rinascimento” che, sull’onda delle ricerche di Rick Strassman, ha preso il via attorno al cambio di millennio grazie agli studi scientifici di Ronald Griffiths della Johns Hopkins University, David Nutt e Robin Carhart-Harris dell’Imperial College London, Stephen Ross, direttore dello Psychedelic Research Group alla New York University, e Charles Grob dell’Harbor-UCLA Medical Center in California4.
Humphry Osmond, Aldous Huxley e Stanislav Grof sono stati tra i primi occidentali a comprendere la valenza tanatodelica di certe molecole, cioè a capire che «far morire l’ego (non il corpo) è terapeutico». Un ruolo fondamentale nel far conoscere ad Hoffmann i funghi magici, da cui estrarrà il principio attivo alcaloide psilocibina, spetta alla sabia María Sabina che ha saputo anche denunciare quanto possano essere sbagliate e dannose le modalità con cui gli occidentali si rapportano con le “piante sacre”, o “maestre”. Lo stesso gruppo di ricercatori guidato da Griffiths, in apertura del nuovo millennio, facendo sobbalzare la comunità scientifica, ha sostenuto la centralità dell’elemento mistico nel processo di guarigione. Più cautamente l’equipe diretta da David Nutt e Robin Carhart-Harris, ha preferito parlare di «temporanea disattivazione di una rete neuronale detta DMN».
Delle potenzialità trasformative degli psichedelici per il genere umano erano convinti Osmond, Huxley, Grof e Leary, ma mentre i primi tre si muovono con una certa cautela, l’ultimo, incapace di mediazioni, ritiene si debba procedere a una diffusione repentina e generalizzata delle sostanze psichedeliche in modo che tutti ne possano beneficiare. Che le posizioni radicali di Leary abbiano inciso sulla messa al bando delle sostanze psichedeliche è più che probabile ma, più di lui, ricorda Cipriano, poté l’establishment statunitense intenzionato, sin dagli anni Cinquanta, a utilizzare la LSD come “arma chimica”.
Mentre negli anni Settanta le molecole psichedeliche sono costrette a inabissarsi – e le strade vengono letteralmente inondate di eroina e, poco dopo, di cocaina –, Basaglia «libera i corpi dalle gabbie murarie». Curiosamente nello stesso decennio vengono messi fuori legge tanto il «manicomio prigione dell’estasi», quanto le «molecole che agevolano l’estasi». «La casa (il manicomio) della psichiatria è distrutta: occorre riedificarne una nuova e la nuova casa della psichiatria si edificherà sui farmaci che – essendo più semplici, funzionali al controllo e antidoto della trascendenza – vinceranno la partita. E così la nuova casa della psichiatria si edifica su centinaia di casematte diagnostiche, caselle nosografiche, costruzioni nosologiche».
Alla fine della stagione psichedelica si aggiunge, con la morte di Basaglia nel 1980, la fine della della rivoluzione portata dalla psichiatria antistituzionale e ad occupare la scena ci pensa l’American Psychiatric Association con il suo sofisticato manicomio nosografico e molecolare fondato sul manuale diagnostico DSM e sugli psicofarmaci.
I “rinascimentali della psichedelia”, sostiene Cipriano, sembrano intenzionati a trattare con la terapia psichedelica i depressi, gli ossessivi, i traumatizzati, «insomma coloro che devono tornare al lavoro», abbandonando agli antipsicotici depot, oggi detti LAI, gli schizofrenici, i deliranti, i maniaci, cioè gli irrecuperabili.
Cipriano intreccia abilmente le diverse linee narrative evidenziando come in alcuni casi le storie procedano parallelamente e come, se si fossero incontrate, o se alcune di queste non fossero state interrotte, si sarebbe arrivati molto prima ove si potrebbe a breve arrivare: all’incontro di Franco Basaglia con Timothy Leary.
Nel caso in cui la psichedelia riesca a compiere la sua «rivoluzione scientifica e sgomini la psichiatria» indirizzando verso l’espansione della coscienza, anziché la sua restrizione, operando per il dissolvimento dell’ego, sostiene Cipriano, «non ci saranno più psichiatri distributori di pillole che impasticcano le persone con farmaci che loro non hanno assunto, fidandosi dei bugiardini delle case farmaceutiche; il nuovo terapeuta sarà più simile allo sciamano che non a Freud o a qualunque dei duecentomila psichiatri di oggi».
È probabile che la psichiatria, per non morire, faccia di tutto per espellere la medicina psichedelica da sé, costringendola alla clandestinità, a restare esoterica, misterica e fuori legge, ma, conclude Cipriano, forse è meglio che la psichedelia, sull’esempio di Leo Zeff, continui ancora per qualche tempo a operare fuori dai riflettori preparando le condizioni affinché la psichiatria muoia permettendo una cura di sé capace al contempo di curare il mondo.
Fonte: Carmilla