Fabio Marcodoppido, psicologo clinico e psicoterapeuta, si è formato presso l’università “Sapienza” di Roma e lo studio di psicosociologia di Roma, e ha collaborato per diversi anni con il Centro di Salute Mentale di via Bardanzellu (ex-ASL Roma B). Trasferito in Francia dal 2008, ottiene un dottorato di sociologia in co-tutela internazionale presso le università “Sapienza” e Versailles Saint-Quentin-en-Yvelines, discutendo una tesi comparativa sui servizi psichiatrici in Francia e in Italia, dal 1960 al 2010. Dal 2019 lavora nel servizio ospedaliero “Averroès” (Hopitaux de Saint-Maurice) e nel Centre Médico-psychologique del polo di psichiatria Parigi Centro.
Lei come concepisce il rapporto tra modello di assistenza ospedaliera e paziente? Quali sono le scuole di pensiero? E lei come concepisce la cosiddetta relazione di cura?
Fin dagli anni 60, le riforme psichiatriche promosse in Francia grazie alla psicoterapia istituzionale hanno dato vita ad un modello ibrido: al fianco della tradizionale cultura ospedalocentrica, che ruota attorno alle funzioni proprie dell’ospedale, troviamo il lavoro svolto dai servizi territoriali per evitare i lunghi ricoveri e prevenire l’istituzionalizzazione. Nonostante queste riforme abbiano trasformato profondamente l’istituzione ospedaliera e psichiatrica, il modello medico tende a cristallizzare il rapporto tra il gruppo curante, quindi il personale sanitario, e i pazienti in un insieme di emozioni opposte: da un lato la passività obbediente alle cure, dall’altro un’opposizione violenta al TSO.
Per pensare questo insieme di emozioni , nel nostro servizio promuoviamo delle attività che spingono il gruppo curante e i pazienti ad incontrarsi e ad interagire senza ripetere il modello medico e ospedaliero tradizionale. Queste sono attività dove si lavora-insieme, d’ispirazione della psicoterapia istituzionale e della psicoanalisi. Grazie ad esse il reparto ospedaliero non è solo un contesto dato bensì un sistema di relazioni da costruire. Cito due esempi sulla base della mia esperienza. Il primo, la riunione settimanale tra il gruppo dei curanti e quello dei pazienti tratta della vita quotidiana in ospedale: l’atmosfera, le tensioni, il funzionamento del servizio, le decisioni da prendere, le cose da migliorare, le attività (scrittura, lettura, cinema, ecc.) fatte e da fare. Durante la riunione i pazienti possono proporre di cosa parlare in totale libertà, anche di argomenti che riguardano più in generale la psichiatria, la psicologia, i trattamenti sanitari obbligatori, gli effetti degli psicofarmaci, ecc. Il secondo esempio riguarda l’accoglienza, tutti i lunedì, dei pazienti nella sala d’attività del servizio per trascorrere insieme due ore del pomeriggio. Questa accoglienza è un pretesto per costruire occasioni di scambio e di interazione: dalla discussione spontanea intorno ad un caffè ai giochi di società, dall’ascolto musicale all’innaffiare le piante del reparto.
François Tosquelles e Franco Basaglia si può dire che sono considerati agli antipodi?
Il modello psichiatrico francese secondo alcuni studiosi è molto diverso da quello italiano. In realtà l’assistenza psichiatrica francese e quella italiana si basano entrambe sulla territorialità, la continuità delle cure e la prevenzione dei lunghi ricoveri. In Francia è François Tosquelles (1912-1994), psichiatra catalano e militante comunista, ad occuparsi di riformare il manicomio della Lozère, a Saint-Alban, nel sud della Francia, durante la Seconda guerra mondiale. In pochi mesi, questo manicomio diventa non solo un luogo reale di accoglienza e cura per i Lozériens affetti da disturbi psichiatrici, ma anche il rifugio di intellettuali resistenti e militanti comunisti. Invece di chiudere e distruggere il manicomio come intendevano fare Franco Basaglia e il suo grouppo di collaboratori, progetto che si è concrettizzato progressivamente dopo l’approvazione della legge 180, Tosquelles ha voluto riformarlo per transformarlo in ospedale psichiatrico. Se Basaglia è stato più radicale, Tosquelles parteciperà con altri (Lucien Bonnafé, Georges Daumézon, Philippe Paumelle, Jean Oury, Felix Guattari) alla metamorfosi dei vecchi manicomi francesi, metamorfosi che si tradurrà nell’istituzione della psichiatria di settore, in linea di principio non ospedaliera e al servizio dei pazienti, orientata alla città, alle cure ambulatoriali e all’integrazione sociale. Da notare che questo modello è stato sperimentato negli anni 70 in Italia da Eduardo Balduzzi (1920-2013), direttore degli ospedali di Varese e Venezia.
Cosa del festival Tracce, della mostra è riuscito secondo lei? Cosa l’ha attirata lì quel 23 settembre?
Il festival ha permesso di valorizzare le esperienze di cura e d’accompagnamento svolte durante la cosiddetta fase acuta, cioè quando i pazienti hanno bisogno non solo di un contesto come quello ospedaliero che possa contenere la crisi, ma anche di attività e occasioni di scambio. I lavori presentati permettono di mostrare che anche nella fase acuta della malattia è possibile pensare, disegnare, rappresentare, leggere, stare in gruppo, ecc. Quel che mi ha spinto a partecipare è stata la presenza di pazienti italiani, provenienti da Roma, la città in cui mi sono formato da studente e che mi ha permesso di fare le mie prime esperienze cliniche in psichiatria. Penso sia utile scambiare e confrontarsi tenendo conto delle differenze dei contesti nei quali si lavora o ci si cura, soprattutto in quelle discipline come la psichiatria e la psicologia che sono le più esposte al riduzionismo biologico.
Durante la mostra abbiamo visto molti quadri, molte rappresentazioni fatte dai pazienti. Sull’arte terapia che ne pensa in breve?
Nello specifico non mi sono mai interessato dell’arte terapia e non l’ho mai praticata. Tuttavia, è indubbiamente un approccio che può aiutare i curanti e i pazienti a interagire tra di loro, per mettere al centro del contesto ospedaliero le emozioni che fare o trasmettere arte può dare. Penso sia importante soprattutto chiedersi se tale approccio è pensato in relazione al contesto in cui si fa e per quali obiettivi, per evitare che sia calato dall’alto. Da notare che nei reparti ospedalieri di psichiatria francesi c’è anche l’ergoterapia (o terapia occupazionale) che permette ai pazienti di pensare, grazie alla nozione di attività, le più semplici occupazioni quotidiane (comprare le sigarette, fare sport o la cucina, disegnare, scrivere, andare a cinema, prendere l’autobus), come dei percorsi di resilienza o di riabilitazione.
Maria Anna Catera
Fonte: 180Gradi