Nel 2005 l’OMS pronuncia il “no health without mental health”, il noto appello che invitava a prestare attenzione alla salute mentale tanto quanto a quella fisica. Ma già Platone, nel Carmide, evidenziava in qualche modo che la salute mentale è un aspetto fondamentale della salute complessiva delle persone quando affermava “si fa questo sbaglio tra gli uomini che taluni cercano d’essere medici dell’una o dell’altra cosa separatamente, o della saggezza o della salute”. I disturbi mentali, in tutte le loro manifestazioni, sono una delle forme di sofferenza più diffusa nella popolazione mondiale, e in costante aumento.
Tuttavia, già 15-20 anni prima del Covid-19 fa emergeva una discrepanza tra il diffondersi del disagio psicologico e l’effettiva richiesta avanzata ai professionisti della salute mentale. L’Italia figurava all’ultimo posto dei Paesi europei per uso dei servizi sanitari sia specialistici che non da parte delle persone affette da disturbi mentali comuni come depressione e ansia. E nella popolazione generale vi era un ritardo medio di alcuni anni tra l’insorgenza della sofferenza psicologica e l’effettiva richiesta d’aiuto. Le barriere che ostacolano tale richiesta sono di vario tipo e richiedono azioni diverse. Lo stigma, l’esclusione sociale e lo scetticismo sull’efficacia dei trattamenti psicologici esigono robuste azioni trasformative culturali promosse a livello istituzionale; la difficoltà nel riconoscimento dei sintomi, il desiderio di fare affidamento solo su di sé, la scarsa conoscenza dei servizi sanitari, la paura delle emozioni e una scarsa competenza emotiva sottolineano l’importanza di percorsi di educazione dei sentimenti per i più giovani, ad esempio, nelle scuole; gli aspetti pratici ed economici richiedono fondi, come il Bonus psicologico istituito durante la pandemia; la carenza di psicologi pubblici ha reso necessaria, con un processo bottom-up partito dalle procedure di alcune Regioni, l’istituzione dello psicologo di base al fine di rinforzare in modo permanente la rete dei servizi sanitari territoriali garantendo l’equità di accesso alle cure per la salute mentale.
Sarebbe però un errore limitarsi a valutare l’impatto delle singole azioni di contrasto allo scarso accesso alle cure psicologiche. È indispensabile, invece, mettere tutte le azioni a sistema, muovendo da un assunto basilare: la salute mentale è strettamente correlata al benessere psicosociale derivante dall’interazione tra aspetti sociali (come relazioni con gli altri, valori e ruoli sociali, vita di comunità, vita spirituale e religiosa) e aspetti psicologici (come emozioni, pensieri, comportamenti), che contribuiscono al benessere generale. Nel complesso, una buona salute mentale non può essere raggiunta senza il benessere psicosociale e viceversa. Mettere a sistema le azioni significa aumentare l’efficacia e l’efficienza delle attività volte a promuovere la salute mentale e il benessere psicosociale nonché a prevenire o trattare i disturbi mentali.
Un continuum di una piramide ideale che vede, alla base, le iniziative volte ad una più ampia fascia della popolazione e che hanno l’obiettivo di promuovere il benessere, a metà quelle rivolte a chi vive già qualche esperienza di stress e mirate a prevenire lo sviluppo di disagio più severo, e, all’apice, i servizi specializzati e pensati per chi soffre di disturbi mentali gravi. Un congruo e formato numero di psicologi di comunità o di base, o di famiglia, o come li si voglia chiamare purché ne sia chiaro il mandato e a patto che vengano messi nelle condizioni di adempierlo, inserito nella rete territoriale non solo può rispondere alle esigenze di benessere e salute mentale alla base della piramide, non solo può occuparsi, in collaborazione con i medici di medicina generale, dei disturbi mentali comuni della parte centrale della piramide, non solo può aiutare a individuare in modo precoce gli esordi dei disturbi più gravi riducendo il “treatment gap” e il rischio di gravi cronicità costose tanto per la persona quanto per la società, ma consentirebbe, finalmente, ai servizi specializzati di non distrarre più risorse, già carenti, dagli obiettivi specifici indicati e affidatigli dal Piano di Azioni Nazionale per la Salute Mentale.
Ma tutto è proprio in quel “congruo e formato numero” e nella chiarezza di ruolo e funzione degli psicologi di comunità. Saranno clinici o link workers secondo il modello anglosassone o altro ancora? Fondamentale è definirlo con chiarezza da subito. Non è il tempo di ridurre la tutela della salute mentale a un intervento di cartellonistica stradale che si limiti a smistare il traffico o, peggio, contribuisca a orientarlo verso l’isola che non c’è. È il momento di importanti cambiamenti e del confronto coraggioso, che pongano al centro persone e comunità con i loro reali bisogni, articolando opportune e adeguate riposte. Chiedere aiuto è un processo che permette ai pensieri e ai sentimenti personali di integrarsi gradualmente nel tessuto delle relazioni sociali, trasformando l’intimità individuale in una connessione interpersonale. E per farlo, è cruciale saper riconoscere i propri sintomi ed essere consapevoli di avere un problema che può richiedere un intervento; è essenziale comunicare il problema in modo che gli altri possano comprenderlo e, allo stesso tempo, farlo in un modo che ci metta a nostro agio; sarà importante assicurarsi che le risorse di aiuto siano realmente accessibili e, infine, essere disposti e in grado di aprire il proprio mondo interiore alla fonte di supporto scelta. Siamo veramente certi che gli attuali assetti culturali e psichici favoriscano tali processi? I tempi sono difficili e situazioni complesse richiedono risposte complesse, di rete e multidisciplinari. Sono in gioco l’essenza stessa e il concetto di salute mentale individuale e collettiva. O si vince tutti insieme o si farà naufragio individualmente.
Fonte: il Riformista