di EMILIO LUPO
Protocolli operativi. Misure di sicurezza provvisorie. Pazienti difficili. Deistituzionalizzazione.
«…oltre le logiche violente dell’abbandono,
la Salute Mentale significa riappropriazione di relazioni
significative e di potere sociale».
Agostino Pirella
«Il movimento di Psichiatria Democratica
tende a rendere le competenze più flessibili
e vicine alla complessità dei bisogni,
poiché si è fatto consapevole dell’alibi permanente
che le rigidità forniscono all’esperto».
Agostino Pirella[1]
Sul che fare dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e con l’attivazione, nelle singole regioni, delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), si apre, periodicamente, il dibattito. Un confronto che, il più delle volte, scaturisce in seguito a qualche notizia giornalistica, come a qualche sentenza in materia, e si sviluppa intorno alla presunta necessità di attivare nuovi posti letto nelle suddette strutture, oppure sul caratterizzare le REMS come luoghi di custodia, aumentando il personale di vigilanza, piuttosto che come luogo di transizione e, quindi, esclusivamente come tappa di un attento processo di inclusione. Operatori sanitari, magistrati, familiari, studiosi del diritto e mondo dell’informazione, si schierano sostenendo tesi a favore o contrarie, sciorinando dati, invitando alla riflessione intorno ai singoli fatti: si veda al riguardo il recente intervento di Marco Patarnello, magistrato di sorveglianza a Roma, e le riflessioni di Pietro Pellegrini, direttore del DSM di Parma. Un confronto che abbiamo apprezzato e salutato con favore e che ci auguriamo possa svilupparsi nei mesi a venire, e che sia in grado di rimettere al centro il progetto personalizzato per il singolo utente, che, nella nostra visione, costituisce il cuore e la stessa ragion d’essere della Risoluzione del CSM che ha varato i Protocolli Operativi (P.O.). Una ulteriore valutazione sullo stato dell’arte del dopo OPG va a questo punto fatta: il salto di qualità che aspettavamo, ovvero il riscatto della dimensione carceraria attraverso progetti condivisi, ancora non c’è stato. E’ un problema di risorse? Di mancanza delle motivazioni e dell’impegno che il problema richiede? Di entrambe? E’ una cultura regressiva della sofferenza psichica, da cui la concezione custodialistica della cura? E’ l’esito della restaurazione “modernizzata” di un modello paradigmatico oggettivante?
A quelli che, come noi, sono interessati ai temi della Salute pubblica da qualche decennio, la discussione sull’aumento dei posti letto nelle REMS che ha il carattere del déjà vu, suscita molta preoccupazione. Quanto accaduto di recente con la chiusura dei lager OOPPGG, era avvenuto in precedenza con i manicomi. La storia e l’esperienza insegnano che all’aumento dell’offerta del posto letto, l’istituzione risponde con la rapida occupazione dello stesso, inducendone il bisogno: una categoria che ha bisogno di occupare un letto, la si trova sempre. Nel caso specifico, si è inizialmente ritenuto che bastasse la sola stipula del Protocollo tra Tribunali, Aziende Sanitarie e DSM per affrontare e risolvere vecchi e nuovi problemi, all’indomani della chiusura degli OPG.
Di contro, come Psichiatria Democratica (PD) e personalmente, insieme al collega Cesare Bondioli, avevamo, difatti ed a più riprese sottolineato, nell’elaborare la nostra proposta di “Protocolli Operativi Vincolanti” (presentata, il 14 giugno 2018, dai dirigenti nazionali di PD alla VII Commissione del CSM), che era invece, assolutamente indispensabile realizzare, da subito, una sorta di schema-regolamento attuativo per ciascun Progetto Obiettivo. Abbiamo suggerito di operare sul campo, utilizzando lo strumento principe del progetto territoriale, titolato pienamente a verificare e monitorare con assiduità e nel tempo il percorso, ovviamente nella sicurezza dei cittadini. Ma anche il solo in grado di porre argine alle “misure provvisorie” che occupano i posti nelle REMS: 253 persone, pari a ben il 41% degli ospiti delle REMS, secondo i dati presentati al Parlamento, il 26 giugno 2020, dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private delle libertà Mauro Palma. A conferma di questo nostro orientamento vogliamo ricordare che tutte le volte che abbiamo avuto modo di rappresentare come, secondo PD, andassero coniugati nella pratica i Protocolli Operativi Vincolanti, lo abbiamo fatto cadenzando minuziosamente modalità e tempi del percorso con dovizia di particolari. Eravamo convinti allora come oggi e ben consapevoli, che soltanto attraverso programmi personalizzati, elaborati per il paziente e con il paziente dalla equipe multi professionale allargata (che comprendesse cioè le figure competenti per gli specifici problemi e per gli specifici bisogni di quella persona in cura) ne avremmo garantito la piena attuazione.
I Protocolli Operativi – e su questo ritengo si sia tutti d’accordo – lungi dal risolversi in un nuovo burocratismo, che immancabilmente esita nella ricerca del posto letto per il “matto”, debbono promuovere il concreto superamento di ogni concezione della cura come esclusiva attività intramuraria, cioè, di segregazione ed esclusione. E’ questa la sfida che il Consiglio Superiore della Magistratura aveva inteso lanciare, già con la delibera dell’aprile 2017, laddove sottolineava che: «…Le REMS sono, pertanto, soltanto un elemento del complesso sistema di cura e riabilitazione dei pazienti psichiatrici autori di reato. L’internamento in REMS ha assunto non solo, come si è anticipato, il carattere della eccezionalità, ma anche della transitorietà: il Dipartimento di salute mentale competente, infatti, per ogni internato deve predisporre, entro tempi stringenti, un progetto terapeutico-riabilitativo individualizzato, poi inviato al giudice competente, in modo da rendere residuale e transitorio il ricovero in struttura».
Questo pertinente richiamo alla “transitorietà” delle Rems, merita una riflessione che parta sempre dalla nostra esperienza nel superamento del manicomio, prima e dopo la riforma psichiatrica. Transitorietà che va intesa in due accezioni: provvisorietà della struttura in quanto tale e limitata permanenza dei ricoverati nella stessa.
Psichiatria Democratica ha avuto sempre chiaro, e lo ha sostenuto fin dai tempi del dibattito che avrebbe portato alla legge n. 81/2014, che le REMS (le strutture necessarie per chiudere gli OPG non in tempi biblici che allora ancora non si chiamavano così) dovevano essere considerate, alla stregua del manicomio, istituzioni da superare, anche fisicamente, attraverso un costante lavoro di de-istituzionalizzazione. Senza questa tensione al superamento, senza questo orizzonte le REMS rischiano di permanere indefinitamente perché, come ci ricordava V. Marzi, «volere l’assenza [del manicomio]…ne produce l’assenza attraverso azioni concrete, innovative che determinano la non domanda di internamento»[2]: nell’esperienza per superare il manicomio fu necessario coniugare il lavoro interno all’istituzione con quello dei servizi territoriali, i quali hanno realizzato l’alternativa al ricovero. Così dovrà essere anche per le REMS!
L’altra accezione della “transitorietà” prevista dalla legge e richiamata esplicitamente dal CSM riguarda la durata limitata dell’internamento. A tale proposito vogliamo ribadire che il progetto terapeutico individuale dovrà mirare a limitare la permanenza nella REMS al tempo minimo necessario per conseguire gli obiettivi previsti nel progetto stesso. Per ottenere la “transitorietà” occorre attuare una appropriata “selezione” dei soggetti destinati alla REMS, che è struttura sanitaria, con particolare riguardo ai c.d. “pazienti difficili”, per esempio evitando di abusare della c.d. “doppia diagnosi” nel caso di soggetti tossicodipendenti, la cui pericolosità sociale è solitamente causata dalla compulsiva ricerca della sostanza più che dalla malattia. Sappiamo, infatti, che per i tossicodipendenti, il ricovero in REMS è terapeuticamente inappropriato, e, quindi, per definizione non devono esservi inviati. Analoghe considerazioni potrebbero riguardare le persone con gravi disturbi di personalità antisociale, o psicopatia, che rappresentano, pensiamo, una fetta degli utenti di tali strutture. Di queste persone, bisognerà con urgenza ed attraverso uno sforzo, straordinario e collettivo, farsi carico fornendo risposte attraverso l’attivazione di progetti individuali e sociali. Senza tentennamenti e con crescente consapevolezza, ricercando risposte diverse dalle REMS, battendo strade nuove, originali e fuori dagli schemi tradizionali. Bisognerà essere visionari, quanto basta a favorire col tempo una progressiva innovazione, attraverso risposte sempre più congrue, di volta in volta; bisognerà verificare il percorso attraverso le pratiche, così come è avvenuto nel corso degli anni con le multiformi applicazioni sul campo della legge 180, che è stata e rimane – anche in questo contesto del dopo OPG – nutrice feconda. In questo modo, probabilmente, riusciremo a centrare l’obiettivo di rispondere ai loro reali bisogni e non a quelli che noi abbiamo deciso unilateralmente e riduttivamente di inglobare per contiguità, comodità o convenienza nell’ambito psichiatrico. La ricerca di percorsi originali e di nuove strade, ancorché ardua e complessa, è – e vogliamo sottolinearlo con forza – un nodo centrale sul quale impegnarsi senza risparmio; e non va considerata come una delle opzioni o come un espediente introdotto per rimandare o spostare in avanti il problema, essa è un doveroso quanto urgente impegno per superare l’attuale tendenza a dare “risposte” indifferenziate che poi, e in taluni casi, si rivelano improprie o incongrue. In altri termini, il problema è quello di rifuggire dalle vie brevi nel fornire risposte e, quindi, dal grande contenitore che, nei fatti, ripropone le pratiche onnivore del manicomio.
Come ci ricorda il collega P. Pellegrini: «la psicopatia costituisce una condizione molto complessa, sostanzialmente intrattabile con strumenti medici psichiatrici, farmacologici e psicoterapeutici» mentre sembrerebbero più idonei «strumenti di tipo psicosociali o misure alternative o non convenzionali» senza dimenticare quanto già verificato con la chiusura degli ospedali psichiatrici quando «la gestione di comportamenti aggressivi (in un) cambio di contesto, normali ambienti di vita, un approccio non custodialistico e quote crescenti di libertà e autodeterminazione hanno permesso di ridurre notevolmente i comportamenti aggressivi, di migliorare autocontrollo e responsabilità e di superare completamente le contenzioni. E’ un esempio di come la diversa offerta di relazione e di cura modifichi anche l’espressione delle manifestazioni comportamentali (patologiche e non) e la loro gestione»[3] .
Dobbiamo essere ben consapevoli che è necessario contrastare i ricoveri impropri per evitare l’esaurimento dei posti nelle REMS e la formazione delle liste d’attesa, cui consegue la richiesta di nuovi posti letto. Insistiamo perché tale dinamica è una delle cause maggiori della regressione manicomialistica, per cui va assolutamente evitata. Vogliamo anche sottolineare, sempre richiamandoci all’esperienza di chiusura del manicomio: le pratiche di deistituzionalizzazione, precedenti e successive a quella che viene indicata anche come legge Basaglia, hanno anche consentito di superare parte dei pregiudizi sui pazienti psichiatrici e hanno contribuito a implementare la legge stessa; ci auguriamo che accada la stessa cosa per il superamento delle REMS. L’attuazione di pratiche che rendono evidente la possibilità di alternativa all’internamento, potrà, infatti contribuire alla modifica, da più parti auspicata, del codice penale sul tema della imputabilità. Su questi aspetti si coglie un gap tra dibattito nell’ambito scientifico/psichiatrico e in quello giuridico, gap che sarebbe tempo di colmare.
Tornando al tema centrale del che fare oggi, vale la pena ribadirlo, quella che va affrontata è la complessità della esistenza, rifuggendo da ogni concezione riduzionista della cura. Riteniamo altresì molto importante la presenza costante dell’avvocatura all’interno del gruppo di lavoro multidisciplinare fin dal suo costituirsi, sia per la necessaria funzione di raccordo, sia per il contributo teorico/operativo che potrà fornire all’equipe. L’avvocatura deve essere presente – a nostro avviso – anche durante la formazione congiunta di tutte le figure coinvolte nel procedimento, che si auspica possa svilupparsi organicamente, in tutte le realtà coinvolte, così come opportunamente previsto nella risoluzione del CSM, «…perché siano previste la migliore cura e possibilità riabilitativa alla persona…» (si veda ad es. il Protocollo Operativo in tema di misure di sicurezza psichiatriche per il Distretto di Milano, 12 settembre 2019).
Riteniamo, inoltre, che la nostra proposta di affidare l’accertamento peritale al Sanitario del DSM che ha in carico o avrà in carico l’utente sia non solo innovativa dal punto di vista teorico ma che abbia anche importanti ricadute pratiche; infatti il curante è in possesso di un notevole corredo di notizie cliniche, sociali e familiari, indispensabili per ben orientare l’intera equipe (del SSN e del Tribunale) sul percorso da intraprendere, informazioni di cui un eventuale perito esterno sarebbe inevitabilmente privo. L’impostazione corale auspicata dalla Risoluzione del CSM, ovvero di un costante monitoraggio attivo dell’intero iter, farà da indicatore al percorso e, nel contempo, sosterrà anche altre decisioni, tra le quali annoveriamo la scelta del luogo ove scontare la misura di sicurezza e la sua stessa durata. Garantirà, insomma, che quanto congiuntamente deliberato, risulti essere anche il frutto di un ampio dibattito tra i differenti saperi degli attori in campo.
Il confronto/scambio tra operatori con percorsi professionali, saperi e pratiche diverse, non potrà che risultare sempre più funzionale alla scelta della tipologia della misura stessa. Così come sarà un arricchimento reciproco il monitoraggio costante del percorso terapeutico – riabilitativo elaborato insieme, con ricadute positive per l’utenza. Così come risulteranno sempre più utili alla coesione dell’intera equipe allargata, gli incontri periodici di formazione e di aggiornamento, espressamente previsti dal CSM nell’articolato della Risoluzione del 24 settembre 2018.
Un ulteriore elemento di riflessione si pone se si considera che alcuni reportsindicavano in ben 1/3 degli ospiti attuali delle REMS gli autori di reati modesti, spesso di natura bagatellare e di scarso allarme sociale; le sanzioni per questi reati non devono essere scontate nelle Residenze per le misure di sicurezza: si tratta, ancora un volta, di rispettare l’indicazione della REMS come extrema ratio.
E’ importante ribadire, per quanto possa sembrare scontato che pur essendo indispensabili, non sono sufficienti i soli schemi di convenzione tra Tribunali e Aziende Sanitarie, e che, anzi, questi possono diventare un alibi qualora le disposizioni in essi contenute non vengano, poi, compiutamente rispettate e rese operative. Sono i Protocolli Operativi, insomma, se saranno tempestivamente e congiuntamente attivati, a costituire il “luogo sicuro” in cui nessuno si sentirà più solo e che la loro piena attuazione migliorerà la qualità della convivenza civile.
Quel che più ci preme sottolineare, relativamente all’importanza dei P.O. è che essi – come la legge di riforma psichiatrica – hanno straordinarie potenzialità di promuovere una evoluzione teorica e operativa, sia dal punto di vista giuridico che da quello più generalmente culturale: di questo ancora non si ha, a nostro avviso, piena consapevolezza. Siamo convinti che ciò che ha reso possibile la chiusura degli OPG e, quindi, il varo dei Protocolli Operativi (P.O.) non sia altro che l’ulteriore evoluzione del percorso storico, naturale e plastico, iniziato col varo della legge di riforma psichiatrica. Noi di PD in particolare dobbiamo essere coscienti del fatto che è cominciata una nuova, faticosa e lunga marcia di deistituzionalizzazione per il superamento delle REMS, e che i Protocolli Operativi devono costituire, sempre più, uno strumento di intervento nel quotidiano, per realizzare quella rivoluzione culturale iniziata con la legge 180 nel 1978 di cui la chiusura degli OPG è stata una ineludibile tappa.
E’ quanto mai attuale, perciò, l’affermazione di Franco Basaglia: «non è importante vincere ma convincere», e nel contempo non si può demandare il destino di migliaia di donne e uomini all’esclusivo ambito tecnico. E’ tempo di allargare di nuovo il cerchio del contagio, di ascoltare, dibattere e proporre: sarà questa stessa modalità di procedere, a garantire la necessaria sicurezza collettiva. E’ tempo di ritornare a schierarsi. Associazioni e movimenti devono, perciò, riprendere a svolgere un costante ruolo di stimolo verso le Istituzioni contribuendo in tal modo a rigettare ogni forma di neo-manicomializzazione, ed essere, ancora una volta, argine contro il ritorno ai tempi bui della custodia e della espulsione.
[1] In Tra regole e utopia, Cooperativa editoriale Psichiatria Democratica, Roma 1982.
[2] V. Marzi, Servizi territoriali: utopia e psicosi, Ed. Metis, 1992.
[3] P. Pellegrini, Liberarsi dalla necessità degli o.p.g., Ed. Alphabeta Verlag, 2017.
Fonte: Questione giustizia