a cura di Barbara Giangravè
Ha creato scalpore, una settimana fa, la lettera a Babbo Natale che uno studente del Politecnico di Bari ha appeso all’albero addobbato nell’atrio dell’edificio. La lettera è stata letta da una docente universitaria che non ha esitato a scrivere in calce al testo il suo numero di cellulare, esortando lo studente a chiamarla. La professoressa, inoltre, ha fotografato la lettera e l’ha postata sui social, chiedendo aiuto per rintracciarne l’autore. Il post è diventato virale ed è stato ripreso dai mezzi d’informazione. In questo modo, la madre dello studente – riconoscendo la grafia del figlio – ha appreso la volontà del ragazzo di porre fine alla sua vita. O, quanto meno, di non avere più voglia di viverla.
Ciò che mi ha colpito nella cronaca dei giornali che hanno ripreso la notizia è stata la definizione “shock” attribuita alla lettera. Questo a dimostrazione di quanto ancora oggi, alla fine del 2024, viga un forte stigma nei confronti della salute mentale. Pur non avendo firmato la sua missiva, infatti, lo studente non ha trovato altro modo per chiedere aiuto. L’importante, in ogni caso, è che l’abbia fatto. Purtroppo, siamo nipoti e figli di generazioni che ritenevano la necessità e la scelta di farsi seguire da uno psicoterapeuta come un’ammissione di pazzia. Ma chi è, in realtà, il vero pazzo? Colui che finge che vada tutto bene? Colui che non ammette il pianto davanti agli altri? Colui che ritiene il chiedere aiuto un sinonimo di debolezza?
Ho impiegato quasi dieci anni per comprendere che fingere di vivere una vita diversa da quella che è realmente, non piangere davanti agli altri e non chiedere aiuto non sono affatto sinonimi di forza ma sintomi, pericolosi, di una fragilità che può condurre all’irreparabile.
Proprio la settimana scorsa, durante la seduta con la mia psicoterapeuta, discutevo del perché non ami il Natale – indipendentemente dalla mia mancanza di fede in Dio – e non lo abbia mai amato. Nemmeno quando ero bambina. La dottoressa ha trovato le risposte, che cercavo erroneamente fuori di me, “dentro” di me invece. Nella mia storia familiare e personale, nella mia vita pubblica e privata.
Se dovessi scrivere io, oggi, una lettera a Babbo Natale, metterei nero su bianco questo.
Caro Babbo Natale,
in te non credevo neanche quando ero bambina, così come non credevo e non credo in Dio. Ma ho bisogno di pensare che ci sia qualcuno, qualcosa al di sopra di noi comuni mortali. Perché mai come in questo periodo storico ho la necessità di esternare la tempesta che si agita dentro di me. Non ti scrivo per chiederti qualcosa per me, ma per riuscire a fare qualcosa per gli altri. Voglio diventare una persona migliore per sostenere chi mi sta accanto. Ho imparato che aiutare chi ci circonda è un aiuto che diamo, prima di tutto, a noi stessi. Non è una banalità né una frase fatta, ma la verità. Negli anni, ho fatto dei regali materiali senza capire che il regalo più prezioso sarei stata proprio io: il mio tempo, la mia vicinanza, la mia assistenza. Mi sono resa conto che il ringraziamento più bello non è il sorriso di fronte a un oggetto che, magari, chi lo ha ricevuto non si aspettava da me e lo ha apprezzato. Il ringraziamento più bello è la gioia che traspare da un paio d’occhi che, forse, poco prima hanno pianto. Ed ecco perché, se tu esistessi, ti chiederei di darmi la forza d’incoraggiare le persone. Persone che soffrono come lo studente del Politecnico di Bari che ti ha scritto qualche giorno fa. Lui ha espresso il desiderio di addormentarsi e di non svegliarsi più. Si tratta di un desiderio che io conosco bene, perché l’ho provato tante volte. E chissà quante ancora lo proverò. Ma adesso no. Perché ci sono delle cose che devo fare, per ora. Se tu ci fossi realmente, ti domanderei di regalarmi un animo buono. Come quello di chi mi ha messa al mondo e che, al netto del suo pessimo carattere, era incapace di concepire dei pensieri cattivi. Mentre so che lo stesso non si può dire di me. Due giorni fa ho letto su un oggetto questa frase: “Voglio un contratto di felicità a tempo indeterminato”. Sono perfettamente consapevole che non esistano più contratti a tempo indeterminato. E non mi riferisco solo a quelli di lavoro. Così come sono perfettamente consapevole che la vera felicità non dura mica per sempre. No. Si tratta di momenti talmente brevi da non riuscire a percepirli, se non dopo averli vissuti. O, addirittura, mai. A me basterebbe riuscire a percepire questi brevi momenti di felicità mentre li sto vivendo e, soprattutto, condividendo. Perché si dice che “la felicità è reale solo se condivisa”. Ecco, quindi, caro Babbo Natale che non so se esisti oppure no, aiutami a regalare dei momenti di felicità a qualcuno. Ti chiedo solo questo. E so che non è poco.
Fonte: Aostaoggi