a cura di Gioele Cima, Edizioni Piano B
Nell’ultimo secolo l’invasione della psicologia nella vita quotidiana ha raggiunto proporzioni sconcertanti: negli Stati Uniti gli psicologi sono ormai il doppio di dentisti e farmacisti, più numerosi dei postini.
L’affermazione della cultura terapeutica che concepisce l’uomo come un essere fondamentalmente patologico, costitutivamente fragile, culmina nell’era digitale nella figura dell’Homo vulnerabilis, un individuo perennemente in crisi, nella costante necessità di cure e terapie per sopportare la vita che diviene peso. La persona sana non è che una persona in attesa di valutazione. Nell’epoca della vulnerabilità il linguaggio è pervaso dalle locuzioni tipiche della psicologia; i termini ansia, stress, trauma escono dal gergo clinico per diventare le parole comuni che accompagnano il quotidiano dell’uomo comune. La sfera del patologico si allarga inesorabile: oggi siamo tutti vulnerabili, e il web è il grande consultorio in cui la fragilità può essere esibita – e in definitiva, mercificata. Ma questo feticismo della fragilità – questa sovraesposizione della vulnerabilità – nasconde più insidie che promesse, e non porta ad alcun miglioramento delle condizioni di vita. Il malessere psicologico, per sua natura singolo e privato, si confonde e si propaga nel conformismo e nell’omologazione con cui oggi lo si descrive: se siamo tutti fragili, tutti potenzialmente malati, allora nessuno lo è veramente.
Fonte: Piano B Edizioni