Paolo Milone, L’arte di legare le persone, Einaudi, Torino 2021
Il titolo di questo libro è intrigante e provocatorio se pensiamo che ne è autore uno psichiatra, il genovese Paolo Milone, che pubblica per Einaudi un testo che suscita riflessioni e qualche perplessità. Di quali legami si parla e di cosa voglia dire legare lo scopriremo con l’avanzare della lettura delle circa duecento pagine del volume, ma andiamo per ordine. Da qualche tempo la psichiatria è tornata sulla scena editoriale sia con riedizioni di volumi scomparsi dalle librerie che con libri contemporanei che ne raccontano le ‘gesta’, racconti che attraversano la dimensione narrativa e talora sfiorano quella saggistica, opere che provano ad entrare nel mondo della sofferenza psichica e del dolore che l’accompagna in vario modo ma sempre cercando di aggirare quella deriva oggettivante che la disciplina medica e pratiche sempre meno affettivizzate hanno visto dilagare nell’ambito della cura e dell’assistenza. Viene da chiedersi se questo ritorno di attenzione non sia dovuto alla necessità di fare i conti con un passato che non pare troppo passato, visto lo stato in cui versa il sistema sanitario o, forse, anche alla riscoperta di tutto quello che pochi decenni fa sembrava assodato e scontato, magari anche sorpassato, ma che così non è. Nel caso di Milone il narratore ha la voce di chi per decenni ha lavorato in quei luoghi dell’estremo che sono i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), quei reparti ospedalieri per acuzie che dovevano essere solo una parte della rete dipartimentale e che, col tempo, complice lo svuotamento progressivo di persone e contenuti dei servizi territoriali, sono diventati sovente il principale presidio psichiatrico a cui far ricorso. E, aggiungo, che sono esitati nell’unico ricettacolo per comportamenti disturbati di origine disparata, dall’abuso di sostanze al tentativo di suicidio, dalla rissa violenta alla crisi psicotica. Se questo fenomeno è ben noto a tutti, lo ribadisco perché questo aspetto di avamposto, di trincea avanzata della psichiatria in una ipotetica battaglia contro la follia è parte integrante di quanto narrato in L’arte di legare le persone. La scena da cui provengono le riflessioni e confessioni di Milone è il Reparto 77, luogo di cui è inventato solo il nome, dove per qualche decennio l’autore ha lavorato e con il quale, nell’imminenza del suo pensionamento, può iniziare a fare i conti. Musings dicono gli inglesi quel misto di memorie e riflessioni che evocano una forma di ispirazione, attività solitaria e ondivaga: il termine ben si adatta a quella dell’autore che vince i confini della diacronia e condivide con il lettore ricordi lontani e considerazioni attuali, ritratti intensi di persone incontrate nella sua professione e nella sua vita e confronti con idee e pensieri che lo hanno attraversato nel tempo e che non hanno smesso di interrogarlo. E che a dettare le ispirazioni ci siano anche le muse è confermato dallo stile, sempre alto e talora poetico, con cui si narrano le vicende umane dell’autore Milone. Non ho gli strumenti se non quelli del lettore praticante per commentare la sua scrittura ma, devo dire, una volta entrati nella struttura del libro, l’alternarsi di brevi narrazioni, considerazioni sull’alterità, la follia e il mondo psichiatrico, aforismi e lampi di immaginazione, passato remoto e prossimo, diventa efficace e convincente. Ma c’è di più.
Per chi, come lo scrivente, ha a lungo lavorato in un SPDC, le pagine di questo libro hanno una notevole capacità di riprodurre il clima fisico ed emotivo che si respira in quei luoghi: il senso di meraviglia e smarrimento di fronte alle manifestazioni più eclatanti della sofferenza psichica e ai comportamenti che ne derivano, la tenerezza e la paura, la spavalderia e la vigliaccheria, il senso di responsabilità radicale e la tentazione di mollare, gli interrogativi costanti su di sé, sul sistema che ti circonda, la critica a quelli che non lavorano in quel fortilizio e che paiono non comprenderne la dimensione di sfida costante per chi invece lì deve stare, l’ ideale confine manicheo tra chi è dentro e chi è fuori. Ho immaginato che Milone, a un certo punto del suo percorso professionale si sia concesso di rappresentare ed elaborare per via letteraria quell’eccesso, quella sovrabbondanza di stimoli e vissuti che nella battaglia quotidiana rimane sospesa, si accumula e aggrava creando un clima destinale, di chi è stato sospinto ai confini della ragione e si misura con coloro che quella frontiera hanno scavalcato. E questa capacità di entrare in questo mondo e di mostrare e farlo vivere al lettore è un sicuro pregio di questo libro. Insieme, direi, a un punto di vista che a molti e per troppo tempo è sfuggito anche nel dibattito sulla disciplina psichiatrica e sulla salute mentale nel nostro paese, almeno fino a che se ne è dibattuto: quello della soggettività dell’operatore, in questo caso lo psichiatra. Tranne che in qualche fortunato contesto in cui si riteneva la supervisione del lavoro di équipe parte integrante dello stesso e indicatore dei suoi risultati (per evocare quelle situazioni non si può che usare un tono favolistico, ahimè), chi opera ed ha operato in SPDC deve fare i conti, ognuno a suo modo, con la solitudine e le proprie strategie difensive, insomma se la deve sbrigare da solo, alimentando spiegazioni e miti, semplificazioni ed iperboli che hanno il principale scopo di preservare una decente sopravvivenza psichica per chi ogni giorno è esposto alla follia e alle sue manifestazioni.
Il carattere tossico di questo confronto se non viene apertamente riconosciuto finisce per nutrire, come storicamente è avvenuto, buona parte dell’armamentario evitante e segregante della psichiatria istituzionale, dalla concentrazione di stampo manicomiale alle varie forme di espulsione dell’altro teorizzate e formalizzate, alle pratiche di uso di farmaci ad alto dosaggio fino all’isolamento e alla contenzione. Su questa torneremo, tuttavia.
La scrittura di Milone riesce a rappresentare molto efficacemente questo ingaggio corporeo con la follia e con i pazienti, un confronto a cui non solo lo psichiatra Milone non si sottrae ma a cui si espone con coraggio, generosità, talora con rassegnazione. È questa, a mio avviso, la componente più autentica del libro, quella in cui l’autore non ci risparmia il suo lavoro di memoria e di emozione, esito di distanza temporale e vicinanza di affetti, sforzo di rendere digeribile l’indigeribile accumulatosi in quella trama intricata che troppo spesso non compare nelle pagine di chi scrive di persone che convivono con la sofferenza mentale e che è accuratamente evitata in qualsiasi formazione specialistica. Pur essendo dunque letteratura quella che ci proposta, il filo robusto con l’esperienza è solido. Persino la posizione ‘eroica’ dello psichiatra di frontiera è ben riconoscibile, umana e il suo compito chiaro, “non abbandonare il paziente”: nessun altro per lui sa quello che conosce e vive un medico di avamposto, non i medici che lavorano nel territorio, non gli psicoanalisti che vivono nelle loro stanze protette, non i giovani apprendisti stregoni che ancora non sanno nulla della vita e della morte e nemmeno gli psichiatri riformatori, percepiti come astratti militanti della teoria, praticanti di tesi ideologiche poco avvezzi alla pratica e al reale confronto con i problemi del dolore psichico, che sia quello della psicosi, estrema forma di sopravvivenza psichica o quello della morte, ricercata come soppressione e spegnimento della fonte stessa del dolore. Almeno questo è quanto ci dice, con un malcelato orgoglio, il dottor Milone.
In questa distanza da tutti fuorché dai pazienti che ha conosciuto, con cui si è cimentato e che non ha abbandonato, sta tutta la cifra personale del libro: quella con cui si misura è però una versione per così dire destorificata della follia, una sorta di mistero insondabile, di fenomeno della natura, terribile e affascinante come un terremoto o un’esplosione vulcanica. Nudo, se non per la sua umanità (e per un sapere mai nominato ma non certo casuale) si confronta con l’altra nudità della pazzia e dei pazzi con cui dialoga affettuosamente nelle pagine, i cui ‘trucchi’ svela e traduce per se stesso e per il lettore. Le brevi storie e i personaggi che le animano si alternano tra scenari differenti che vanno dal Reparto 77 alla città, al domicilio di qualche paziente, al Pronto Soccorso, alla comunità in cui accompagna a malincuore un paziente percependo in questa separazione un abbandono colpevole a cui rimediare. Un filo conduttore è Lucrezia, rappresentante di quei pazienti amati da cui si è sedotti, quelli che in apparenza permettono uno sguardo più ravvicinato nella sofferenza ma che poi si sottraggono, scompaiono o, come in questo caso, si uccidono. Dolore profondo e ferita inguaribile per chi si è sentito interrogato in prima persona e, alla fine, non è stato in grado di rispondere.
E poi compare il legare, non quello metaforico, parente del legame, ma quello che è invalso in più dell’80% degli SPDC italiani anche se raggiunge punte ancora più rilevanti nelle varie istituzioni per anziani, quelle in cui la pandemia ha mietuto migliaia di vittime, per capirci.
Di questo legare mani e piedi, con fascette apposite, ai letti dell’ospedale, Milone rivendica l’utilità: “sono della vecchia scuola” dice, come una fedele guardia dell’imperatore per il quale la guerra non è una parata in divisa da pompa ma un affare da gente robusta, duro e leale confronto col nemico di fronte al quale non si scappa e con cui non sono ammesse sbavature sentimentali. Si può pertanto irridere il giovane collega che vorrebbe calmare il paziente agitato e confuso “con la parola e il gesto” ricordandogli che, secondo la psicopatologia semplificata dell’esperto anziano, le vere agitazione e confusione non sono suscettibili ad altro che alla contenzione e, soprattutto, non beneficiano di inutili laboriosi convincimenti verbali che possono essere saltati con sbrigativa efficacia dalla “messa in sicurezza” che, in mani esperte, dura “cinque minuti”. Un atto che viene nobilitato dalla sua dimensione di contatto fisico, dal genuino corpo a corpo che viene ben descritto e dettagliato nelle pagine seguenti e presentato come il più umano ed elementare intervento terapeutico. Come pure va trattato con un misto di paternalistico disprezzo il primario democratico che critica il legare ma, evidentemente, non ha alcun potere su chi lega, esempio per Milone di riformismo più attento all’ideologia che alla pratica clinica. Così descritto lo scenario della contenzione perde la sua carica di violenza inflitta e subìta per diventare climax di una progressiva escalation che trova nelle fasce magnetiche la sua realizzazione per poi essere recuperata nel momento rapsodico delle “rimembranze davanti al fuoco”, in cui i reduci dalla virile battaglia commentano l’accaduto, come cow boys dopo lo scontro a fuoco sanguinoso con gli indiani. Non che nelle diverse pagine dedicate al legare non sia presente del pathos e che non si evochino pensieri e riflessioni: anche l’autore ed attore di questo gesto “faticoso” sa che “è cattivo chi abbandona il paziente” ma, soprattutto, che “legare o non legare non lo decide il singolo psichiatra ma l’organizzazione del reparto, sono i reparti che legano o non legano”.
Ebbene, direi che non si possa negare la semplice verità che la contenzione non è solo un atto ma uno stile di lavoro, che la violenza non è solo quella del singolo o degli infermieri che legano su ordine medico ma di un sistema organizzato intorno a quella possibilità che agisce anche quando non viene realizzata, che rende la relazione di cura e umana un ipocrita frammento di un clima di intimidazione e di potere in cui il paziente, la persona, non il rappresentante della Follia, non ha altra possibilità che subire. La psichiatria di Milone è senza dubbio meno urticante di quella fintamente aggiornata che rinuncia volentieri alle sue ambizioni di prossimità con le neuroscienze più avanzate per far ricorso, senza tentennamenti, alle stesse soluzioni arcaiche del nostro autore, alla miseria di fettucce e di arti legati per dominare le menti.
Le critiche alla contenzione sono diffuse e corroborate da atti ufficiali, si riferiscono giustamente a leggi e invocano la garanzia dei diritti costituzionali, oltre che essere riprese tutte le volte, e non sono poche, che quei pazienti nei letti a cui sono legati finiscono per morire. Inutile dire che la versione più diffusa della psichiatria istituzionale non rinuncia facilmente a una pratica che rivendica addirittura come atto terapeutico e che, come tale, propone di regolamentare. A me pare che questo libro, che comunque non lascia indifferenti, si discosti, nelle intenzioni almeno, da quelle posizioni e racconti la solitudine di chi si sente investito di una missione individuale, di un incarico iniziatico a cui altri non hanno accesso, lotta solitaria e fuori da coordinate culturali, sociali e politiche. C’è ancora molto da fare e da insegnare altre arti che non siano quella di legare. Non si può continuare ad accettare la contenzione senza fornire alternative che sono possibili e praticate e comunque frutto di processi di apprendimento oltre che di cultura, perché diritti e rispetto della persona non sono solo opzioni teoriche. Le nuove generazioni di operatori devono avere luoghi e contesti per imparare, nella nostra difficile professione, a costruire percorsi di cura condivisi, a conoscere e praticare le alternative alla violenza disciplinare che non sono patrimonio di pochi sognatori e, non ultimo, a sapere che la centralità della relazione di cura ha decenni di pratiche e di teoria che non possono essere liquidate come vecchi arnesi e la cui mancata conoscenza ed esperienza non rappresenta un’opzione ideale ma una semplice, cruda malpratica professionale prima ancora che etica.