di Andrea Angelozzi
Gentile Direttore,
nel ripercorrere le vicende della progressiva involuzione nella organizzazione dei servizi di salute mentale in Italia viene il sospetto che siano l’esito di due forze che viaggiano in direzione opposta: da una parte una sofisticata complessità, dall’altra una banalizzante semplificazione.
La prima strada prende atto della stessa complessità della questione del mentale e quindi della sua patologia, dove la mente non accetta di rimanere imprigionata nel cervello ed in rigidi crani e coinvolge nella sua stessa intrinseca natura le relazioni interpersonali ed il mondo circostante. Pluralità di piani e direzioni, dunque, che si trasformano in pluralità di concetti, problemi e strumenti.
La strada della semplificazione è quella che, di questa complessa articolazione, finisce maldestramente per prendere solo un aspetto, scambiandolo per l’intero. Così, preferendo il semplice senso comune alla scienza, in risposta ai sempre più frequenti atti di violenza da parte dei pazienti psichiatrici, si propongono più posti nei Reparti ospedalieri o nelle Rems, tralasciando la fragilità con cui ormai la salute mentale territoriale può limitare le acuzie; o si lega la malattia mentale al femminicidio, con un legame smentito dalla letteratura scientifica. Ci consola – ma non molto – il fatto che poi di queste grandi discutili iniziative, passato il momento emotivo, non rimane nulla.
La semplificazione bypassa il percorso che porta ad uno specifico esito e propone di intervenire solo su questo. Sto pensando alla attenzione della precedente Commissione Ministeriale per la Salute Mentale per la contenzione, senza intervenire contro quella demolizione dei servizi che favoriva la drammaticità delle situazioni, esitando poi nel legare le persone. Ma sto anche pensando a chi, di fronte a questo sfaldarsi dei servizi di salute mentale, pensa che si possa risolvere tutto con lo psicologo di base.
La semplificazione privilegia la tendenza a togliere: se il modello è una assistenza territoriale che vede servizi pluriprofessionali che devono integrarsi con il tessuto sociale, favorendo una riduzione dei ricoveri, l’esito diventa: il taglio dei posti letto, macro-aggregazioni che cancellano il legame con il tessuto sociale e pochi operatori che sono chiamati a fare tutto e dovunque.
La semplificazione porta ad una diluizione omogenea di quelli che sarebbero diversi aspetti specifici di un percorso. Se l’idea è che i disturbi psichiatrici dell’adulto iniziano già nell’adolescente, si prende la scorciatoia di affidare alla psichiatria dell’adulto la gestione dei minori, e, lasciando la neuropsichiatria infantile in condizioni drammatiche, si inventano protocolli che giustifichino il ricovero nella psichiatria degli adulti e le consulenze che – senza averne competenza – questa fa per minori nei Pronto Soccorso.
È semplificazione anche sostituire il “ci stiamo lavorando” alle soluzioni. Esemplare, dopo l’omicidio di Barbara Capovani, la nomina una nuova Commissione Ministeriale, che non mi risulta abbia, a distanza di un anno, proposto concretamente un qualche cambiamento; a livello regionale si fanno procedure o conferenze che, quando non parlano di altro rispetto ai problemi esistenti, tracciano indicazioni affidate a servizi fantasma. Politici e componenti delle commissioni intervengono criticamente sulla situazione esistente, dimenticando che non hanno il semplice ruolo di osservatori, ma quello più complesso di proporre concretamente soluzioni. E si proclama (come in Veneto) la imminente apertura di reparti di Neuropsichiatria infantile che però continuano a non aprire.
È semplificazione considerare i report SISM un puro rituale, in realtà anche un po’ fragile per i tanti dati che mancano (ad esempio i ricoveri dei minori in SPDC) e per quelli di una matematica impossibile (basta confrontare in alcune regioni – fra cui il Veneto – i presenti in comunità che risultano dal bilancio di entrati ed usciti con quelli dichiarati). Viene da domandarsi se ci sia qualcuno che analizza questi dati e che li utilizza per cambiare qualcosa. È più semplice che ci siano e basta, anche se è ancora più semplice che non vengano forniti dati di dettaglio, come in alcune Regioni, per non dovere nemmeno rendere conto di nulla.
È semplificazione poi quando solo sono gli uffici regionali o le direzione strategiche ASL a dire alla psichiatria quello che deve fare, sulla base di quello che credono di sapere relativamente a quello che credono di avere capito.
Cancella la complessità anche l’egemonia di un solo aspetto, che sia quello psicofarmacologico, o solo sociale o solo psicologico, oppure sbandierare la prevenzione, affidata al senso comune ma senza alcuna base scientifica, per nascondere le carenze nella cura e nella riabilitazione.
Alla fine predomina la logica dei bonsaisti principianti per cui se non sai come posizionare un ramo nella pianta è meglio tagliarlo.
Talvolta la semplificazione aggiunge qualcosa, che nasconde una complessità problematica. Invece di prendere atto che la organizzazione attuale dei dipartimenti, non può rispondere ad una realtà di patologia e terapia ampiamente cambiata negli anni, si pensa che si risolve tutto aggiungendo qualche ambulatorio specialistico, come se si fosse in chirurgia.
Il problema è che le risorse disponibili nel SSN, per quanto riguarda la salute mentale sono state spese con un pensiero minimo, dove la semplificazione alla fine diventa povertà. Invece di sospettare una qualche ostilità sociale o culturale nei confronti del problema mentale, la realtà è che sono tanti i bonsaisti principianti che, a furia di tagliare, poi sono rimasti solo con un tronco senza rami, destinato a morire.
Alla fine la salute mentale è incompatibile con il pensiero semplificato che le varie direzioni amministrative/politiche sono in grado di sviluppare. Esse sono – semplicemente – inadeguate a gestire la complessità.
Fonte: quotidiano sanità