In questi giorni la rivista medica The Lancet ha pubblicato un ampio lavoro di analisi della letteratura sulla salute mentale delle persone LGBTQ+, e in particolare sull’impatto che lo stigma sociale ha sul loro benessere percepito. Risultato: gli articoli rintracciati sono stati 98 e hanno evidenziato che la discriminazione sociale incide sulla salute mentale di queste persone. Le condizioni a livello sociale, le norme culturali e le politiche istituzionali che limitano le opportunità, le risorse e il benessere – contribuiscono al carico sanitario tra gli individui LGBTQ+. 57 di questi 98 articoli collegavano misure oggettive (cioè non auto-riferite) dello stigma strutturale a quelle mentali, 27 a uso di sostanze, 20 a HIV/AIDS o altre infezioni sessualmente trasmissibili e 20 rilevavano impatti sulla salute fisica complessiva.
98 studi nel corso di decenni sono molto pochi, e fra questi l’unico lavoro italiano citato su Lancet è uno studio edito nel 2022. condotto da un team di ricercatori in Psicologia dell’Università di Milano Bicocca e dell’Università Federico II di Napoli, che sono due fra i pochissimi gruppi di ricerca italiani che studiano la salute psicologica delle persone LGBTQ+.
In Italia praticamente nessun dato
“In Italia, ma il discorso non è molto diverso nel resto d’Europa, lo stato della ricerca sulla salute mentale delle persone LGBTQ+ in relazione alle discriminazioni di natura sistemica è limitato, in primo luogo perché mancano i dati. Inoltre, per quanto riguarda il contesto italiano, ad oggi non esistono dati aggiornati a livello nazionale sul tasso di persone LGBTQ+ e sul loro benessere, anche solo come ordine di grandezza” ci racconta Daniele Rucco, uno degli autori dello studio presso l’Università di Milano Bicocca. “L’unico questionario dell’ISS a mia conoscenza che provava a quantificare la dimensione della comunità trans in Italia (attenzione: non LGBTQ+ nel suo complesso!) risale al 2020, ed è stato pubblicato proprio in questi giorni”. Il 7,7% dei partecipanti all’indagine (su 19.572 individui) hanno dichiarato un’identità di genere diversa dal sesso registrato alla nascita. Tra le persone TGD che hanno partecipato allo studio, il 58,4% erano non binari e il 49,1% ha subito discriminazioni nell’accesso ai servizi sanitari.
Tutti i dati di popolazione che riguardano la salute mentale e la prevenzione in generale raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità, o dal Ministero della Salute, non pongono la domanda riguardante il genere, si suddivide soltanto fra maschi e femmine, il sesso biologico. Questo fa sì che tutte le raccolte dati che possediamo non possano essere usate per la ricerca sulla salute mentale delle persone LGBTQ+ in relazione al fatto di essere LGBTQ+. I dati della Sorveglianza Passi o Passi d’Argento, ad esempio, di cui anche noi di Infodata parliamo spesso, non includono questo indicatore, nemmeno i database sulla “salute percepita”, cioè sullo stato di benessere percepito dalle persone, che è uno degli indicatori usati comunemente accanto ad altri ‘oggettivi’ da chi si occupa di epidemiologia e salute pubblica . È un’occasione persa.
“Oggi in Italia è pressoché impossibile fare ricerca a meno di non disegnare delle survey, dei questionari, noi stessi, che è una delle cose sulle quali noi come gruppo cerchiamo di lavorare”.
Come misurare l’impatto del blocco del ddl Zan?
Il lavoro del team di Rucco citato anche da Lancet ha confrontato a posteriori lo stato di benessere mentale percepito dalle persone bisessuali+ prima e dopo il blocco indotto del ddl Zan, nell’ottobre 2021. “Poco dopo il no al ddl Zan, ci trovammo insieme al Professor Antonio Prunas e alla Dottoressa Annalisa Anzani dell’Università di Milano Bicocca e al Dottor Cristiano Scandurra, del Dipartimento di Neuroscienze e Scienze Riproduttive dell’Università di Napoli Federico II, che qualche tempo prima, nel 2019, aveva pubblicato una ricerca interessante sulla salute mentale nelle persone bisessuali+. Discutemmo della possibilità di utilizzare lo stesso questionario da sottoporre a un altro campione di persone bisessuali+ dopo il blocco legislativo della proposta del ddl Zan, e vedere a posteriori se c’erano stati dei cambiamenti”. Effettivamente pare ve ne siano stati. I dati di 299 persone bisessuali+ italiane dopo la bocciatura del disegno di legge Zan sono stati confrontati con i dati delle stesse misure di 381 persone bisessuali+ italiane prima del rifiuto della legge Zan. “A seguito dell’analisi dei punteggi ottenuti dai questionari e usando misure scientificamente condivise, abbiamo osservato un acuirsi delle esperienze di discriminazione percepito da persone bisessuali+ a seguito del blocco del ddl Zan, e un aumento dei livelli di malessere, come ansia e depressione” conclude Rucco.
Va detto che la ricerca non può certo venire annoverata fra gli studi longitudinali veri e propri, dato che il confronto è stato fatto a posteriori fra campioni diversi soltanto. La correlazione – in questo caso del peggioramento della salute mentale successiva al blocco del ddl Zan -è un’ipotesi che abbiamo discusso nell’articolo, ma non significa ancora causalità. È comunque uno dei pochi risultati in nostro possesso, da cui partire per scavare ancora.
Una letteratura lacunosa
Risultati in linea con la revisione di The Lancet che individua un insieme crescente di prove del fatto che lo stigma strutturale è associato a molteplici esiti avversi sulla salute nelle popolazioni LGBTQ+, identificando numerosi meccanismi attraverso i quali lo stigma strutturale potrebbe influenzare gli esiti di salute in queste comunità: auto-stigma, fattori legati all’assistenza sanitaria, fattori di rischio biopsicosociali (ad esempio l’ isolamento), risorse materiali come il reddito e processi relazionali o familiari (ad esempio, la stabilità di coppia).
Gran parte di questi studi presentano molte lacune. Sono ancora pochi gli studi longitudinali per testare i meccanismi attraverso i quali lo stigma strutturale modella la salute delle persone LGBTQ+ e sviluppare misure strutturali per valutare lo stigma per specifici sottogruppi.
Inoltre, la maggior parte degli studi ha misurato lo stigma strutturale correlato all’orientamento sessuale; solo sette (il 7%) hanno misurato lo stigma strutturale esclusivamente correlato all’identità di genere e nessuno ha creato misure di stigma strutturale specificamente per individui bisessuali o per individui con altre identità sessuali o di genere.
Si tratta infine di studi che hanno coinvolto essenzialmente gli Stati Uniti. Solo il 22% degli studi ha misurato lo stigma strutturale LGBTQ+ in contesti al di fuori degli Stati Uniti, tra cui Australia, Canada, Italia,Paesi Bassi, Nuova Zelanda,Russia, Svezia, e Taiwan. Una manciata di studi sono stati condotti in più paesi in Africa Asia, Europa e Regno Unito.
Fonte: Infodata Il Sole 24 Ore