Il nuovo romanzo di Viola Ardone ripercorre quarant’anni di storia della psichiatria attraverso il racconto delle vite di Elba, nata in manicomio, e di Fausto Meraviglia, lo psichiatra basagliano che la libera. Un’occasione per riflettere su una legge resta ancora all’avanguardia, ma in parte inapplicata
Una legge buona è come un ombrello che ripara tutti, non solamente quelli che stanno sotto la pioggia. Anche chi si era rifugiato sotto il cornicione di un palazzo e non aveva il coraggio di uscire allo scoperto per non bagnarsi». La giornata mondiale per la salute mentale è un’occasione per ricordare, attraverso le parole che Viola Ardone scrive nel suo ultimo romanzo, Grande meraviglia, uscito per Einaudi, la rivoluzione nella psichiatria culminata nella Legge 180 del 1978. Quella che prende il nome da Franco Basaglia è una norma unica al mondo: solo in Italia ci si è spinti a chiudere i manicomi in maniera così netta. Perché il malato deve essere più importante della malattia. E – usando sempre le parole dell’autrice – «perché se messi in condizione di fare cose normali, i pazzi si comportano da sani». Grande meraviglia è un romanzo che percorre 40 anni di storia della psichiatria attraverso gli occhi di Elba, bambina e poi donna nata e cresciuta in un ospedale psichiatrico, e di Fausto Meraviglia, il medico che le restituisce la libertà.
Ardone, questo libro, dopo Il treno dei bambini e Olivia Denaro, completa idealmente la sua «Trilogia del Novecento». Come mai ha deciso di chiuderla proprio con il tema dei manicomi e della salute mentale?
Questa trilogia finisce alle soglie del 2020. Per me questa data ha rappresentato un po’ una cesura, perché poi siamo entrati nell’era Covid-19 e post-Covid. Mi è sembrato che questa pandemia avesse portato un po’ a riacutizzarsi molte problematiche e molte patologie legate appunto alla psiche dei più giovani e non solo. Questo mi ha dato l’occasione per riflettere su un tema che probabilmente per un po’ di tempo è rimasto sopito e che invece ora sento con molta urgenza da tante famiglie, che non sempre riescono ad avere l’occasione di confrontarsi su di esso. Perciò ho voluto andare all’origine, che è la data – simbolica ma non solo – del 1978, con la Legge Basaglia, con cui l’Italia è diventata un Paese all’avanguardia nella ridefinizione del trattamento delle patologie psichiche.
Un tema del libro è quello delle etichette: parlando del vecchio direttore del manicomio, Elba dice che sa tutto di tutti e che mette l’etichetta sopra al dolore.
Elba è confinata in questo manicomio praticamente da quando è nata. Ha fatto alcuni anni in un orfanotrofio per studiare, poi è voluta tornare all’ospedale psichiatrico perché ha solamente la mamma, che è lì. Lei è rassicurata dal fatto che almeno là ognuno sappia qual è la sua patologia. Lei dice che sapere è anche un po’ guarire. Il fatto, però, è che in realtà questa ragazza non ha nessun problema, si trova in manicomio perché c’è sua madre; quindi cerca in tutti i modi di scoprire quale sia la sua etichetta, la sua malattia, per poter aspirare a una cura. Per questo compila una sorta di «diario dei malanni di mente» in cui cerca di radunare tutti i sintomi che vede nelle altre per poter capire qual è la sua follia. Ed è un po’ quello che facciamo tutti, in misura diversa. Anche noi a volte ci ascoltiamo per capire se sta andando tutto bene, se siamo sani o se abbiamo una nevrosi, un’ossessione, una fragilità, una debolezza. In questo Elba non è molto diversa da noi.
C’è anche un passaggio in cui un medico basagliano, Fausto Meraviglia, si deve arrendere a fare l’elettroshock a Elba.
È stata una cosa molto dolorosa da scrivere perché Meraviglia, quando arriva in manicomio, nel 1982, incomincia a cercare di cambiarlo. Perché è vero che la Legge Basaglia è del 1978, ma è anche vero che ci sono voluti 20 anni per riuscire ad applicarla e a chiudere tutti i manicomi ancora residui. Questo processo è stato molto affidato alla bravura e al coraggio degli psichiatri di nuova generazione. Meraviglia idealmente aborre totalmente la metodologia dell’elettroshock almeno come veniva praticato allora, in maniera selvaggia e punitiva. La sua più grande sconfitta, probabilmente, è dovervi ricorrere per la sua paziente preferita, questa giovanissima ragazza, nel momento in cui la vede refrattaria a tutte le altre cure di ogni genere. Per non perderla, si trova nella massima contraddizione di dover applicare una metodologia contro cui sta combattendo fermamente.
Continuiamo a parlare di Meraviglia. Nel libro viene messa in luce in maniera importante una contraddizione, come l’occuparsi degli altri e combattere una battaglia così importante rischi di distrarre da quelli che sono gli affetti più prossimi.
Meraviglia è un personaggio volutamente contraddittorio. È uno che si spende con tutte le sue energie per un ideale, da realizzare ogni giorno con il principio di equità e giustizia, salvando queste «matte» che gli sono state affidate come medico. Però non è un santo, non è solamente un eroe, è uno che poi magari, invece, non riesce a darsi agli affetti più prossimi. È visto come uno psichiatra geniale e generoso dal mondo, ma come un pessimo padre dai suoi figli. Mi piaceva che ci fosse questa discrasia tra pubblico è privato perché effettivamente è stato così per tanti uomini, soprattutto di quella generazione, che erano impegnatissimi fuori casa. Forse troppo impegnati per potersi anche occupare di instaurare una quotidianità e una vera comprensione coi propri cari.
Meraviglia, parlando a Elba di Basaglia e della Legge 180, dice che il medico è morto ma la norma è viva. Siamo sicuri che lo sia per davvero?
Questa è una bella domanda, che ho messo proprio alla base di questo romanzo, che ho scritto per rispondermi. È viva, perché attualmente è ancora valida, ma non sempre viene attivata come dovrebbe. Anche perché doveva esser man mano attuata attraverso regolamenti regionali che spesso non ci sono stati, sappiamo che le Regioni in Italia sono molto diverse tra loro. Hanno fondi molto differenti e riescono a gestire sia la sanità «ordinaria», sia, a maggior ragione, quello che riguarda la cosiddetta «malattia invisibile» in maniera molto diversa. Abbiamo ancora oggi realtà molto virtuose, in cui funzionano i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura – Spdc, l’inclusione, l’idea di comunità, in cui la persona sofferente viene reintegrata, e realtà in cui tutto questo non avviene. Qua tutto il peso della situazione ricade in maniera violenta sulle famiglie, che non hanno competenze né i mezzi per gestirla.
La 180 è ancora all’avanguardia ed è una guida per gli altri Stati. Il problema è che è rimasta inapplicata in alcune sue parti.
A tal proposito, a un certo punto una delle infermiere dice che la Legge 180 è stata fatta in fretta e furia e che, in sostanza, fatica a cambiare qualcosa.
Ho parlato con alcuni medici e psichiatri, che mi hanno raccontato è che gli ospedali psichiatrici si stanno ricostituendo in altra forma. Anche se è venuto meno il grande elemento dirimente, quello della detenzione: il manicomio, considerato come luogo in cui le persone perdono la libertà, da cui non possono uscire perché sono internati contro il loro parere, spesso in maniera punitiva. Però ci sono ancora luoghi che rischiano di diventare dei «parcheggi», com’erano una volta gli ospedali psichiatrici. Soprattutto, ancora, ci sono trattamenti diversi a seconda del censo e della classe sociale: la povertà fa rima con pazzia. Le persone che possono permettersi delle cure, che possono permettersi di essere seguiti anche privatamente da uno psichiatra, da un’analista o da un terapeuta hanno maggiori possibilità di star meglio e di tornare alla vita normale. Chi non ha grandi possibilità economiche ha più probabilità di finire in una condizione di marginalità, a vivere per strada o a finire in ricoveri senza molte possibilità di venire fuori.
Quando non c’era ancora il divorzio, qualcuno diceva che il manicomio potesse essere una soluzione abbastanza pratica per un matrimonio in cui la moglie non si voleva più.
Uno dei temi che tratta nel libro è anche quello delle donne che finivano in manicomio solamente perché scomode per il marito o per qualche altro uomo.
Quello che riguarda le donne è, come succede di solito, un capitolo più triste. Venivano rinchiuse da chi ne aveva la potestà, che era un uomo, il padre, il marito, il fratello. Quando non c’era ancora il divorzio, qualcuno diceva che il manicomio potesse essere una soluzione abbastanza pratica per un matrimonio in cui la moglie non si voleva più. Ho letto dei materiali d’archivio che sono stati studiati, in cui le diagnosi delle donne rinchiuse negli ospedali psichiatrici riportano le diciture «loquace», «erotica», «manca di senso morale», «madre indegna». Sono tutti aggettivi che non hanno minimamente a che fare con un quadro psichico: sono giudizi su quella donna che in quanto loquace, erotica, eccetera, è messa fuori dalla società.
Fonte: Vita.it