(Julio Bittencourt)
Torna in Città Alta, tra i chiostri del Monastero del Carmine e gli Ex Magazzini del Sale, il festival bergamasco della fotografia. Dodici esposizioni dal respiro internazionale per fermarsi a capire come anche «NOI, QUI» possiamo fare la differenza: lasciandoci attraversare da alcune provocazioni, senza restare indifferenti
Tra i chiostri del Monastero del Carmine e degli Ex Magazzini del Sale in Città Alta, dal 14 ottobre al 19 novembre, la fotografia diventa politica. La quarta edizione di «Fotografica» – il festival della fotografia di Bergamo – pone infatti al centro l’essere umano in tutta la sua alterità relazionale. Così, tra giusti istanti, scorre tra gli occhi dei visitatori il senso più profondo dell’essere comunità: cum – unione – di quel munus che altro non è che un «dono».
Guardare, riconoscere l’esistenza, legittimare, porsi in relazione: ecco le tappe fondamentali attraverso cui «NOI, QUI», nelle sue dodici proposte tematiche, vuole «raccontare i sentimenti e le buone pratiche con un’attenzione a quanto oggi potremmo ancora fare per dare una direzione diversa al nostro cammino», come afferma Daniela Sonzogni, direttrice di «Fotografica». E se fotografare significa «scrivere con la luce», non si può uscire da «Fotografica» senza chiedersi quale luce abbia permesso lo scatto, il racconto. E non è solo questione di corretta esposizione, della presenza di una fonte luminosa che dia forma e colore a paesaggi e soggetti. È la scelta di dare luce a un momento, per scriverlo e descriverlo. È una scelta: volontà di conservare e proteggere, desiderio di ammettere un’importanza.
(Foto Patrizia Riviera)
A tal proposito, Nadia Ghisalberti, assessora alla Cultura del Comune di Bergamo, sottolinea: «Ogni fotografo, con la sua formazione e con la sua sensibilità, sceglie cosa raccontare, regala uno sguardo preciso, fornisce un punto di vista speciale. E lo spettatore ascolta, con gli occhi, storie che vengono da altrove. È la valenza “etica” di cui è permeata certa fotografia che fa la differenza, e che “Fotografica” ha scelto di portare a Bergamo».
Mi permetto allora di raccontare quali sono, a parer mio, le quattro esposizioni imperdibili di «Fotografica 2023», seguendo un ordine che dall’intimo e familiare si apre, in uno slancio ascendente, all’internazionalità.
«Leaving and waving», di Deanna Dikeman
È una storia sussurrata con una potenza incredibile, tanto che risulta difficile non sentirsi coinvolti. Il particolare diventa universale con un’immediatezza che lascia di stucco, mentre il visitatore è spinto, scatto dopo scatto, a ricostruire una storia dal forte coinvolgimento emotivo. Per ventisette anni, dal 1991, ogni volta che partiva da Sioux City Deanna Dikeman (USA, 1954) ha fotografato i suoi genitori nell’atto del saluto. Il tempo che passa e l’evoluzione della vita sono ben rappresentati dalla linearità visiva con cui le fotografie sono collocate lungo la parete.
(Foto Chiara Del Monte)
Ecco che il figlio cresce e i suoi genitori invecchiano, fino a scomparire: prima il nonno, poi la nonna. «Nell’ottobre 2017 è morta anche lei – racconta la fotografa – Quando me ne sono andata, dopo il suo funerale, ho scattato un’ultima fotografia del vialetto vuoto. Per la prima volta nella mia vita, nessuno mi salutava». È forte la chiamata a interagire con questa intima storia familiare, che inevitabilmente pone ciascun visitatore in sensibile contatto con le proprie perdite. Arianna Rinaldo, curatrice indipendente dell’esposizione, dichiara: «La fotografia riesce a fare anche questo, a trasmettere sensazioni che ci raggiungono sottopelle, che ci colpiscono al cuore, che ci fanno pensare e fanno scaturire emozioni contrastanti, che ci fanno piangere e sorridere». Così la Dikeman, che mette in gioco un empatico rituale d’addio, effetto placebo contro la tristezza del suo distacco dai genitori, delinea una storia famigliare sull’invecchiamento e sul dolore insito in un addio.
«La liberazione della follia», Patrizia Riviera
Bergamo, negli scatti della Riviera (Milano, 1956), si mostra attraverso i progetti e gli ospiti della Fondazione Emilia Bosis, un ente no-profit che si occupa di salute mentale e opera sul nostro territorio con tre comunità, due centri diurni e diversi appartamenti protetti. La collezione raccoglie scatti dal 2000 di viaggi con carrozze, spettacoli teatrali con drammaturghi d’avanguardia e laboratori di moda e di fumetto. Tutte queste attività rappresentano così una liberazione ‘della’ follia, semplicemente perché ‘dalla’ follia non ci si potrà mai liberare. È quella che Italo Valenti, ne «L’etica della possibilità» chiama la «piena realizzazione di un’etica della follia, cioè il passaggio dalla cura alla condivisione, dalla restrizione e separazione della follia, al suo pieno diritto di cittadinanza».
(Foto Chiara Del Monte)
Negli scatti di Patrizia Riviera compaiono allora soggetti dalla personalità intensa, di una bellezza profonda, tenera e simpatica. La follia non viene ritratta come condizione di isolamento e sofferenza, come malattia mentale, bensì come possibilità, restituendo dignità alla condizione umana degli utenti della Fondazione.
«Cover me with Gold», Gianmarco Maraviglia
Il fotografo milanese Gianmarco Maraviglia racconta un’intensa storia di integrazione attraverso un linguaggio universale: il calcio. Alcuni scatti, riprodotti in duplice copia, presentano delle sagome d’oro, il colore della vittoria, nello sport come nella vita. La vittoria è in questa mostra la «Sant’Ambroeus Football Club», la prima squadra di richiedenti asilo e rifugiati, nata nelle periferie di Milano e arrivata a militare nella seconda categoria della FIGC. Lo sport diventa motore di un’accoglienza degna e di un’integrazione che riconosce la città d’adozione come base d’unione.
(Foto Gianmarco Maraviglia)
L’oro, colore con cui si avvolgono nelle coperte termiche i migranti appena sbarcati sulle nostre coste a protezione di esistenze insicure, si appropria della simbologia del sole, della luce e di una felice e nuova possibilità. La squadra, che conta un bacino di circa sessanta atleti provenienti per lo più dall’Africa Occidentale, ha anche un affezionato gruppo di supporter, l’«Armata Pirata», oltre che una collezione di fotografie che vogliono raccontare «un’idea, una forma sana e gioiosa di combattere il razzismo e creare una comunità» (Chiara Oggioni Tiepolo, curatrice dell’esposizione).
«In a window of prestes maia 911 building», Julio Bittencourt
È l’installazione forse più di impatto di tutta «Fotografica», l’unica collocata all’aperto, nel chiostro del Monastero del Carmine, seguendo un andamento verticale dalle dimensioni importanti. Julio Bittencurt (Brasile, 1980) si pone come crudo rivelatore della povertà, dell’emarginazione, della solitudine e della violenza delle favelas brasiliane. Seguendo la semplicità modulare della ripetizione, il fotografo presenta un palazzo fatiscente di 22 piani, la più grande casa occupata nel mondo, ai cui residenti abusivi viene intimato lo sfratto. Così, ogni finestra racconta una storia, dando rilievo all’umanità rinchiusa in ogni abitazione, tanto differente nella singolarità delle vite, quanto universale nella sua condizione abitativa.
(Foto Chiara Del Monte)
Ogni posa è stata negoziata: non si vuole nascondere l’influenza del fotografo, né tantomeno fingere che sia una composizione casuale, non costruita. Ciascuna finestra, però, risponde al gioco che il fotografo suggerisce a se stesso: «Guardare alle finestre, dalle finestre, alla ricerca di qualcosa che rifletta la nostra esperienza frammentaria con la città», come scrive il professore Ronaldo Entler. Emerge chiara e lampante la complessità delle forze in gioco in una città contemporanea: la decadenza dei materiali costitutivi in contrapposizione alla dignità di chi li abita, le diverse situazioni socio-economiche, mal integrate in una politica urbanistica che non protegge i suoi abitanti. Bittencourt, attraverso il suo lavoro, sintetizza la forza artistica e documentaristica della fotografia, consegnando una lettura complessa che parte da quanto di più semplice rappresenta il vivere dell’uomo: la sua casa.
Tra gli spazi del Monastero del Carmine e gli Ex Magazzini del Sale
Da non perdere a «Fotografica» sono anche tutte le altre storie che non possono non essere menzionate. Nel Monastero del Carmine Nick Brandt con «The day may break» promuove una riflessione sul tema della distruzione ambientale nel rapporto uomo–animali tra Zimbawe, Kenya e Bolivia. In continuità si pone anche Fausto Podavini che, con «Apnea», racconta la situazione successiva alla terribile alluvione in Ciad nell’ottobre 2022. In «Between these folded walls, Utopia» il duo Cooper & Gorfer attira l’attenzione dei visitatori con un tripudio di colori, volto a raccontare, attraverso dei collage, la storia di donne emigrate in Svezia.
(Foto COOPER & GORFER)
Edoardo Delille, invece, con «Elementi», racconta l’identità contemporanea del territorio bresciano partendo dalla sua storia passata. «Roma revolution» di Alessandro Gandolfi narra la nascita del primo «rom girl group» al mondo, storia di sei ragazze rom giovani, originarie della Serbia, pronte a mandare forti messaggi di emancipazione alle loro coetanee. «Io non scendo. Storie di donne che salgono sugli alberi e guardano lontano» , a cura di Laura Leonelli, rivela alcune storie di rivincita e rinascita del mondo femminile tra la fine dell’Ottocento agli anni Settanta del Novecento, dall’Europa agli Stati Uniti.
Agli Ex Magazzini del Sale, invece, in «Progetto Sport, tra Dada e movimento ritmo / dinamico in ready», Maurizio Galimberti presenta la sua celeberrima tecnica del mosaico fotografico, mentre Sebastian Gil Miranda con «Na Ponta dos pès» racconta il lavoro di un’organizzazione no-profit nelle favelas brasiliane, volta a favorire l’empowerment delle bambine attraverso la danza.
«Fotografare significa attribuire importanza», diceva Susan Sontag. Vuol dire scegliere a chi e a che cosa dare la possibilità di resistere e di durare. La condivisione degli scatti, poi, diventa patrimonio collettivo di immagini che consacrano una memoria.
Ecco la politica della fotografia: donarsi, denunciare, sollevare questioni attraverso la schietta concretezza dell’immagine. È questo che avviene nelle dodici esposizioni di «Fotografica», visitabile dal venerdì alla domenica, dalle 10 alle 20, fino al 19 novembre.
Fonte: L’ECO DI BERGAMO