Fight Club – La violenta scoperta del nostro ego

di Davide Settembrini

Fight Club è uno dei film più riusciti di sempre, il cinefilo mediamente esperto lo urlerebbe (e giustamente lo fa) a gran voce. Il tandem espressivo e iconico tra Norton e Pitt si biforca nelle due divergenti personalità di uno stesso soggetto.

Fight Club, prima di essere un film cult del grande regista David Fincher del 1999, era stato un romanzo di Chuck Palahniuk del 1996 e ora è appena ritornato il sequel in veste di graphic novel, firmato da Palahniuk-Stewart.

Un’iperbolica forma di disturbo bipolare, che a tratti confluirà in un dualismo dissociativo della personalità, scandisce le azioni e vicissitudini del protagonista Jack (mai nominato) e ciò contribuirà a creare caos nella mente dello stesso protagonista, causando la più totale impreparazione per l’ignaro spettatore.

Jack è un borghese in ogni singolo aspetto, è un giovane uomo composto, stressato dal suo lavoro, consumato e afflitto dalla monotonia del quotidiano, insoddisfatto.

Il Fight Club è un’associazione segreta di uomini che vogliono fuggire dalla schiavitù del sistema, uomini finiti in questo meandro labirintico di ferocia e sangue, per sentirsi in qualche modo, nonché paradossalmente, vivi.

La violenza e il dolore degli scontri corporali insegna che l’uomo non è ciò che possiede, cosa faccia per vivere o quanti soldi abbia in banca, l’uomo è innanzitutto un animale, e quel desiderio di atrocità e quelle urla miste di sfogo e dolore, altro non sono che la sua manifesta appartenenza a quel regno animale.

Uomo ferito e animale sociale nel Fight Club, coabitano finalmente nella pace dei sensi e della violenza. Si tratta di una riappropriazione indebita e, al contempo, legittima della natura umana; i soprusi della finanza, le malefatte della politica, la sfasata realtà commerciale che affoga nell’eccessivo consumismo, sono distrazioni e aberrazioni moderne, violenze meno pure.

Soltanto questo nuovo e atipico Fight Club può rinsavire il deluso e depresso uomo moderno.

Tyler Durden (Brad Pitt) è colui che nella pellicola interloquisce per la prima volta col protagonista (anche se si tratta di un flashback). Nel vero primo dialogo tra i due, Tyler racconta dell’esistenza di quest’avamposto della clandestinità e della ferocia brutale, Tyler sarà il primo a scardinare le certezze borghesi del protagonista. Tyler è l’alter ego sicuro, coraggioso, affascinante di Jack, egli non è schiavo del sistema mondiale, ma è un fautore e creatore di un altro divergente stile di vita, ne è il protagonista e vuole condividere questa creazione con Jack e altri delusi.

Fight Club

Il Fight Club è una mediazione, è l’Io, quella fase interstiziale tra l’Es sporco e irrazionale e il Super-io controllato e anestetizzato dalle leggi morali. In quest’avamposto clandestino di sudore e sangue, adrenalina e fratellanza, tutti sono liberi e tutti si rispettano proprio perché uguali, come selvagge fiere nella foresta. La struttura della personalità secondo Freud giunge in nostro soccorso a spiegare la profondità e l’arguzia di questa pellicola. E colpo dopo colpo, Jack scopre che il Fight Club, è decisamente quello che fa per lui.

Tyler annichilisce i fragili ideali legati allo stile di vita di Jack, divenendo una sorta di guida spirituale che accompagna Jack nell’Inferno. Ma il Fight Club è un piacevole Inferno parallelo, infiammato di gioia estatica e adrenalina, e se esiste uno strano ed eccentrico Virgilio come Tyler, esiste anche una Beatrice, molto meno pura e molto di più disinibita. Marla Singer è una squinternata, partecipa come Jack a incontri di alcolisti anonimi, di malati terminali o di depressi, solo per riuscire a trovare un rifugio notturno o per ottenere qualche pasto gratuito.

Il film svilupperà una trama esaltante e ricca di colpi a effetto, uno dei quali sarà rappresentato dall’epilogo stesso: ciò che si riteneva essere un dialogo, era in realtà un monologo.

Jack è Tyler, Tyler è Jack.

Fight Club


Quel Club è una stanza chiusa, proiezione dell’istinto selvaggio di una mente lucida, ma al contempo inconsapevolmente disturbata. Una visione frutto di una proiezione mentale, un luogo metaforico dove ritrovare se stessi tramite la violenza e la fratellanza. Il Fight Club è la finestra aperta del disturbo bipolare di Jack.

Il battesimo dell’anima purificata, la catarsi dell’essenza.

L’essere subordinato, l’uomo soffocato da legge, controllo e convenzioni sociali, che si riappropria di qualcosa. Coscienza, comodo e società che si mettono in mezzo a un processo, un meccanismo naturale, offuscando una verità primordiale: è l’essenza ferina a governarci o, quantomeno, che coabita nel nostro essere.

Chiunque non abbia ancora visto Fight Club, è colpevole di un delitto, ma può redimersi, aprire le sudicie e consumate porte del club di combattimento e guardare se stesso, proprio perché, Fight Club, è la febbrile e violenta scoperta del nostro io.

Fonte: ARTE SETTIMANA

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