“Fare la 180” non è soltanto il titolo di un libro, ma è anche la estrema sintesi di tutto ciò che il libro racconta e, soprattutto, un concetto che allude a molto altro, l’espressione di un atteggiamento mentale e di una attitudine al “fare”, che spesso fa difetto in chi, pure, ha scelto di operare per il benessere delle persone.
Nel suo libro Tommaso Losavio narra, con la stessa passione e con lo stesso entusiasmo di allora, la storia di una trasformazione radicale della scienza e della pratica della psichiatria nel momento stesso in cui essa si compiva. Non le “chiacchiere” dei molti che si professano ferventi sostenitori della legge 180, ma che ancora oggi sono ancorati alle pratiche di una alienante istituzionalizzazione, ma i fatti di coloro che negli anni ’70-2000 lavorando con passione ed intelligenza hanno dimostrato con Franco Basaglia non solo la praticabilità, ma anche la superiorità della psichiatria di comunità, hanno chiuso i manicomi e hanno ridotto nel recinto degli strumenti obsoleti pratiche gravemente lesive della dignità della persona.
Fare, mettersi in gioco, inventare, queste sono le parole che più frequentemente ricorrono nel testo e che narrano fatti straordinari che hanno segnato il passaggio dalla cura intesa come internamento e repressione del paziente alla presa in cura globale; dalla distanza di un paternalistico e asimmetrico rapporto medico-paziente alla partecipazione alla vicenda umana del sofferente e dei suoi famigliari superando assurdi condizionamenti e, se necessario, trasgredendo norme eticamente inaccettabili. Un primario che, accompagnato dai suoi giovani collaboratori, occupa in pieno centro di Roma, in via Baccina, un appartamento abbandonato, di proprietà del Comune di Roma, abbattendone a colpi di piccone la porta murata per utilizzarlo come abitazione e liberare cinque donne da anni ricoverate nel manicomio S.Maria della Pietà è uno dei fatti straordinari, forse anche un po’ divertenti, di questa storia. L’appartamento verrà restaurato, arredato e trasformato in una accogliente casa-famiglia, le cinque signore si integreranno rapidamente nella vita del quartiere e vi trascorreranno numerosi anni stringendo solidi rapporti affettivi con i vicini di casa. La trasformazione, senza alcuna autorizzazione, dei CIM (Centri di Igiene Mentale) in CSM (Centri di salute Mentale) aperti 12 ore al giorno con attività di Centro diurno e di soggiorno per brevi periodi di osservazione, l’apertura di una serie di comunità per accogliere i dimessi dal manicomio ai fini della sua definitiva chiusura, cioè la costruzione “spontanea”, o invenzione, già nei primi anni ’80, dei DSM (le cui caratteristiche strutturali e funzionali saranno definite soltanto dal Progetto Obiettivo salute mentale dell’aprile 1994) sono altrettanti fatti straordinari che si moltiplicheranno negli anni successivi e renderanno possibile la costruzione di una psichiatria di comunità e, nel 1999, la chiusura definitiva del manicomio a Roma.
Tutto ciò fu possibile non solo grazie ad un forte impegno personale nella relazione con i pazienti e i loro famigliari, ma anche grazie ad un sapiente lavoro preparatorio e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, di tutte le istituzioni coinvolte e dei loro più significativi rappresentanti anche attraverso l’organizzazione di eventi culturali, scientifici e di politica socio-sanitaria per la tutela della salute mentale.
Non c’è dubbio che una simile, complessa attività richiede una dedizione assoluta e non comuni capacità organizzative e di rapporto empatico con le persone.
Si deve peraltro osservare che, nonostante il prevalente pregiudizio negativo dell’opinione pubblica sulla “malattia mentale”, ci troviamo in presenza di una congiuntura storica, politica e culturale favorevole al cambiamento. In questo contesto contributi decisivi all’attuazione del percorso di trasformazione furono quelli del Comune di Roma, Francesco Rutelli Sindaco, Amedeo Piva Assessore alle politiche sociali, che non solo mise a disposizione risorse e locali per le comunità destinate ad accogliere i dimessi dal Santa Maria della Pietà, ma rese possibile l’apertura di 26 Centri diurni nella Capitale con un finanziamento annuale che viene tuttora erogato dal Comune; Nando Agostinelli, Assessore provinciale all’assistenza psichiatrica, da subito, con l’approvazione della legge 180, aveva cercato di creare servizi territoriali con destinazione di locali e di risorse per l’assunzione di personale ed era stato tra coloro, pochi, che avevano lavorato per fare arrivare Franco Basaglia a Roma; Lionello Cosentino, Assessore alla Sanità della Regione Lazio, mise a disposizione locali e risorse per la chiusura del manicomio e nel 1998 affidò al Prof. Losavio la direzione del Settore Medicina sociale della Regione Lazio prima e dell’ufficio Speciale Tutela soggetti deboli poi per una più spedita realizzazione del progetto di superamento del manicomio, per la trasformazione dei servizi territoriali per la salute mentale e per la emanazione del primo (2000) Progetto Obiettivo salute mentale della Regione Lazio.
Dobbiamo essere grati a Tommaso Losavio per aver consegnato alla storia questa suggestiva testimonianza che, oggettivamente, viene a costituire un importante contributo ad una nuova riflessione sul presente dei servizi per la salute mentale.
Purtroppo in un contesto storico, culturale e politico completamente cambiato, nei successivi venti anni abbiamo dovuto assistere, o forse abbiamo semplicemente assistito, alla aziendalizzazione, alla prevalente privatizzazione della sanità e allo smantellamento dei servizi di comunità per la salute mentale in gran parte sostituiti da una vasta “residenzialità”, per lo più privata, di chiaro stampo neomanicomiale. E’ stata cioè messa in atto nella pratica quotidiana, e spesso con il coinvolgimento più o meno consapevole di operatori burocratizzati e di famigliari rassegnati, una strisciante controriforma con nuove e subdole forme di istituzionalizzazione che Franco Basaglia aveva sempre lucidamente messo nel conto esortando i suoi collaboratori alla vigilanza e alla difesa.
La lettura di questo libro ci riporta sul terreno concreto del “fare la 180” e ci può suggerire obiettivi e percorsi per completare, oggi, una trasformazione rimasta drammaticamente a metà.