di Luca Negrogno
Fornendo un quadro complessivo dei temi a cui Franca Ongaro Basaglia ha dedicato il suo impegno teorico e pratico, il libro consente di rimettere in gioco la molteplicità di livelli implicati in un approccio complesso alla deistituzionalizzazione.
L’opera di Annacarla Valeriano permette di focalizzare alcune questioni di grandissima attualità per pensare la pratica di cambiamento radicale che identifichiamo come “deistituzionalizzazione psichiatrica” e, valorizzando la specificità del ruolo assunto in questo processo da Franca Ongaro Basaglia, consente di coglierne lo sviluppo con uno sguardo lungo, sottratto alla consueta “monumentalizzazione” in opera quando si tende a collocarne lo svolgimento solo negli anni ‘70 e si identifica l’approvazione della legge 180 nel 1978 come suo finale compimento.
Fornendo un ritratto complessivo dei temi a cui Franca Ongaro Basaglia ha dedicato il suo impegno teorico e pratico, il libro consente di rimettere in gioco la molteplicità di livelli implicati in un approccio complesso alla deistituzionalizzazione – la cui rilevanza è utile tornare a cogliere in modo unitario per leggere correttamente il portato di quel movimento. La ricognizione sui temi più complessivi ai quali Franca Ongaro Basaglia ha dedicato la sua attività intellettuale e politica (prima e dopo la morte di suo marito) – la necessità di superamento del carcere, una legislazione sulle “droghe” non repressiva, la questione di genere, l’istituzione dei centri antiviolenza, l’eutanasia, il riconoscimento della violenza sessuale come reato contro la persona, lo studio critico della psichiatria e della medicina in una feconda interazione con le teorie sociologiche radicali degli anni ’60, la realizzazione di un servizio sanitario pubblico, universalistico e fondato sulla partecipazione, ci spinge a cogliere la multidimensionalità delle critiche e delle riflessioni che animavano le pratiche di rinnovamento sviluppatesi dal 1961 come alternativa all’ospedale psichiatrico. La questione psichiatrica, infatti, non è stata intesa come questione “settoriale” dalle soggettività protagoniste di quella fase ma come momento particolare all’interno di una critica complessiva alle relazioni sociali basate sul privilegio, sullo sfruttamento di classe, sulla mercificazione della salute.
La collocazione della “deistituzionalizzazione” in un orizzonte temporale ben più ampio della fase pionieristica delle sperimentazioni degli anni ‘60 e ‘70 permette di abbracciare con lo sguardo anche la seconda fase del processo, successiva all’approvazione della legge 180, di cui Franca Ongaro Basaglia è stata protagonista attraverso un forte impegno politico dentro e fuori le istituzioni. Con questo sguardo possiamo aggiungere un altro tassello alla riflessione su quello che, come scrive altrove Maria Grazia Giannichedda, non fu un mero processo lineare di “implementazione della riforma” ma un campo di tensione fortemente problematico in cui si ibridarono azioni legislative, nuove forme di militanza di base, invenzioni istituzionali, contrattazioni con le amministrazioni locali, inedite alleanze sociali – dentro e contro un panorama di arretramento politico e culturale complessivo.
Tra i molti motivi che ci spingono a rileggere oggi quel campo di tensioni così denso di contraddizioni c’è la consapevolezza che per molti versi la lettura semplicistica del cambiamento nell’assistenza psichiatrica (interpretato come frutto di un semplice “progresso lineare” nelle teorie dell’assistenza e nei metodi di trattamento della malattia) ha reso inerti la maggior parte dei temi che in quel processo di riforma erano implicati. Si è diffusa negli anni una tendenza interpretativa che da una parte tende a vedere il superamento dei manicomi come semplice quanto necessario raffinamento del senso civile moderno e dall’altra a derubricare la dimensione più politica del movimento ad essa legato come mera esagerazione ideologica, in un complessivo approccio che tende ad oscurare il rapporto tra la fase storica delle riforme e i conflitti politici che attraversavano la società italiana, non dando il giusto rilievo al fatto che, come dice Franco Rotelli, “l’istituzione da noi messa in questione da vent’anni a questa parte non fu il manicomio ma la follia”.
La semplicistica identificazione del superamento dei manicomio come manifestazione di un “progresso” nelle scienze psichiatriche, occultando la storicità determinata dei concetti scientifici, nasconde uno dei momenti più rilevanti del movimento di deistituzionalizzazione: l’individuazione del rapporto intrinsecamente politico tra questioni che riguardano l’organizzazione istituzionale della sanità e dell’assistenza e la natura del legame sociale nel suo complesso, legame a cui si articola una riflessione sul ruolo dell’azione pubblica rispetto ad esso.
Nella contingenza attuale assistiamo da una parte ad una rinnovata centralità dei temi sanitari nell’organizzazione politica e dall’altro ad una sempre maggiore difficoltà a riempire di senso il portato di termini quali “comunità”, “prossimità”, “partecipazione” nelle scelte pubbliche relative all’organizzazione dei servizi. Risulta quindi necessario riaprire i temi radicali posti dal movimento di deistituzionalizzazione per leggerne i problemi irrisolti, valutare quanto il generale processo di rinnovamento da esso promosso sia da considerare incompiuto e analizzarne le possibili invenzioni da riattualizzare per affrontare la contemporaneità. Tale sforzo non è solo utile per ragionare sulle forme attuali di organizzazione dei servizi ma anche per porsi il problema, eminentemente politico, del ruolo che in esse possono trovare le questioni della comunità, i dibattiti pubblici sull’organizzazione dei servizi territoriali, le mobilitazioni sul lavoro, in sintesi le prassi collettive che definiscono i problemi del welfare come ambito dell’azione pubblica.
È evidente, infatti, che un forte attivismo caratterizza i gangli del policy making nella particolare fase di ricostruzione dell’assistenza sociosanitaria post-Covid 19 che stiamo attraversando. Solo nel 2021 abbiamo assistito a tre conferenze nazionali svolte da inedite cordate di gruppi professionali, enti di terzo settore, cittadini variamente organizzati e rappresentanti dei vari Ministeri, spesso con la “benedizione” di esperti provenienti da università e think tank pubblici e privati. Parallelamente vediamo agitarsi nella società almeno altri due processi: da una parte un disorganico ma vivace tentativo delle persone con esperienza diretta di far sentire la propria voce o di ibridare i discorsi dei tecnici (si pensi alla conferenza nazionale degli Esp tenutasi a Bologna nell’autunno del 2021 o a iniziative come le Scuole Popolari di Psichiatria promosse in vari territori da Ugo Zamburru in collaborazione con associazioni di utenti dei servizi di salute mentale; un processo simile sta avvenendo anche nel mondo della disabilità, con la continua interlocuzione di FISH e FAND con i Ministeri e i gruppi professionali). D’altra parte, proprio a partire dalle prime fasi della pandemia, la questione della cura è diventata centrale per una serie variegata e multiforme di soggetti politici che hanno dato vita a campagne, mobilitazioni, momenti pubblici di sensibilizzazione, denuncia e riflessione, quando non direttamente a esperienze di mutualismo “dal basso” e di autorganizzazione. In questi processi sono confluite riflessioni variegate, da quella cattolica a quella transfemminista, mostrando la disponibilità di una notevole fetta di popolazione a “mobilitarsi” sui temi della salute e dell’assistenza. Queste esperienze, che forse oggi vanno incontro da una parte ai primi segnali di stanchezza, dall’altra alla ricerca di forme inedite (e spesso problematiche) di formalizzazione, ci convincono che sia utile riaprire gli archivi, come ha fatto Annacarla Valeriano, con in testa tali questioni. Leggere questo libro serve, dunque, a riattivare i nodi della storia come strumenti di riflessione e di intervento sul presente.
Nel testo che vi proponiamo Pensare i nodi della deistituzionalizzazione “Contro tutti i muri”, scaricabile in PDF, abbiamo provato a far risuonare l’opera di Annacarla Valeriano con altri materiali ed archivi, mettendo in relazione il suo racconto ad altre testimonianze sui nodi rimasti aperti dalla pratica di deistituzionalizzazione. Nel paragrafo Lo sguardo lungo sulla deistituzionalizzazione si analizzano le continuità e le discontinuità tra i movimenti degli anni ‘70 e la pratica politica degli anni ‘80 e ‘90 orientata ad ottenere concreti cambiamenti nei servizi, nel costante confronto con ciò che era emerso dalla “immaginazione utopica” dei movimenti. Il paragrafo dal titolo “La “realizzazione” delle riforme degli anni ‘70” apre una riflessione complessiva su quella che fu la corrispondenza – largamente riconosciuta scarsa tra i protagonisti dell’epoca – tra gli obiettivi dei riformatori e la forma che concretamente assunse il servizio sanitario nazionale dopo la stagione dell’approvazione delle leggi 180 e 833. “Il nodo costituito da mutualismo, sussidiarietà, terzo settore” svolge una ricognizione del particolare equilibrio che, a partire dagli anni ‘80, si definì nella ricerca di nuove forme di “partecipazione” contestualmente al venire meno del monopolio del settore pubblico nella realizzazione dei servizi. “I nodi del carcere, del genere e della critica sociologica”, l’ultimo paragrafo richiama i temi del lavoro di Franca Ongaro che non si sono esauriti dalla lotta per il rinnovamento psichiatrico ma contribuiscono a riaprine l’analisi nell’attualità da molteplici punti di vista. Lungo questi paragrafi, la riflessione si snoda con l’obiettivo di utilizzare lo scritto di Annacarla Valeriano come occasione di analisi critica dell’attualità e di intersezione con altri testi e documenti, recenti e datati, utili a sviluppare una rinnovata interrogazione radicale sui sistemi di cura e sulle forme di riproduzione sociale.
In particolare, nelle analisi del nodo costituito da mutualismo, sussidiarietà, terzo settore, proviamo ad affrontare questioni molto attuali relative al complesso campo di fenomeni variamente definito come “mutualismo”, “volontariato”, “sussidiarietà”. Ci poniamo oggi una serie di domande: quali processi possono svilupparsi per evitare che questo settore si irrigidisca e inaridisca in una mera struttura orientata a fornire prestazioni e difendere posizioni di potere? Quali forme di partecipazione, quali configurazioni istituzionali, quali forme di soggettivazione, interlocuzione, eventualmente di conflitto, possono garantire che esso non si risolva in una semplice stampella sussidiaria alla destrutturazione di welfare pubblico, erogando solo gruppi di prestazioni dislocate secondo vari livelli di qualità e dignità del lavoro – essenzialmente in corrispondenza del potere contrattuale di diverse fasce d’utenza via via selezionate come target? Cosa potrebbe impedire che venga strutturandosi, anche in conseguenza a una ipernormatività pubblica orientata a principi di garanzia, una gabbia d’acciaio di convenzioni e autorizzazioni tra pubblico e privato che si risolva anch’essa solo in un rigido paniere di prestazioni? E d’altra parte quali saperi, quali pratiche situate e concrete si perdono nella quotidiana assenza di valorizzazione istituzionale di questo settore, nella trasformazione di questo valore in numeratore meramente quantitativo e poi economico? Quali spinte all’attivazione di politiche pubbliche universalistiche potrebbero venire dalle pratiche di questo settore, dalla prossimità all’housing first, dallo sviluppo di comunità alla concreta lotta alle disuguaglianze d’accesso?
Ricollegato a questo primo gruppo di questioni ne sta un secondo: in una fase attraversata da molte e varie forme di azione pubblica, come abbiamo visto dalle recenti Conferenze Nazionali (sulla salute mentale, sulla disabilità, sulla tossicodipendenza, sulla non autosufficienza, ecc) a cui si sono accompagnate anche varie azioni di legiferazione, nell’alveo del PNRR, che forma sta prendendo l’azione pubblica e come è pensabile intervenire in essa? In parte, infatti, i posizionamenti e le reti di vari soggetti (professionisti, famiglie, terzo settore, governo) sembrano procedere verso un generale allineamento con un modello di “welfare europeo”, e questa potrebbe essere per noi una buona occasione per riaffermare la non-settorialità della salute mentale, come abbiamo imparato dal processo di deistituzionalizzazione.
D’altra parte, però si apre la questione: cosa è destinato a restare, dopo il settennato di finanziamento europeo, dei servizi “a termine” costruiti attraverso il PNRR? Così si sta forse prefigurando un nuovo modello generale di sostenibilità delle politiche sociali e delle politiche pubbliche? Un modello che sia in grado di valorizzare adeguatamente la vivacità dei singoli territori, la capacità delle amministrazioni locali di creare alleanze con il tessuto economico? E, se questo è il modello in direzione del quale si va, come ripensiamo in questo passaggio – pur con potenzialità positive – la capacità del pubblico di incidere sugli squilibri strutturali e sistemici che condizionano la società? Da più parti, per esempio, si solleva il tema della ridiscussione delle indennità di accompagnamento, in generale riconsiderando tutti i processi per cui la “monetizzazione” (del disagio o della disabilità) diviene opzione preferibile rispetto all’abbandono o alla coercizione istituzionale, che si tratti di rifiutarli in nome del mercato o di una più ampia “autogestione”. Ma questo tema non dovrebbe aprire una domanda più ampia sulle lacune della nostra fiscalità, sulla mancanza di progressività e in generale sulla necessità di rilanciare il tema della protezione dai rischi collettivi?
È impossibile sintetizzare in questa sede un dibattito così ampio. L’unica indicazione che qui vorremmo dare, ricordando l’impegno di Franca Ongaro Basaglia nel cercare forme nuove di “partecipazione” indispensabili alla realizzazione della 180, è che sarebbe utile oggi riprendere lo studio di queste intersezioni per rispondere a domande pressanti su almeno tre versanti: è chiaramente impossibile risolvere l’idea di un servizio sociosanitario integrato in una prospettiva solo statalistica, che si trincera dietro il monopolio del pubblico. Tuttavia, vediamo una notevole incertezza nel definire oggi forme di azione pubblica che sappiano porsi all’altezza degli interrogativi lasciati aperti dal processo di deistituzionalizzazione. Da una parte il rapporto che si è andato definendo tra servizio pubblico e strutture di terzo settore spesso appare orientato solo a una forma di razionalizzazione tecno-burocratica, che riproduce compartimenti stagni di prestazioni e non garantisce nessuna forma rilevante di “partecipazione”. Dall’altra il rapporto con forme più o meno organizzate della comunità resterebbe fondamentale nella definizione di approcci innovativi negli interventi, nelle possibili trasformazioni del rapporto con l’utenza, nel superamento delle specificazioni ultra-tecnicistiche delle prestazioni a vantaggio di un modello sociale a tutti i livelli.
Da qui le altre due questioni. Come è possibile valorizzare i saperi e le pratiche emancipatorie del mutualismo (incardinate nella sua storia di attivismo e informalità) preservandone il portato di autogestione e riappropriazione, di ricostruzione del tessuto sociale, senza inglobarlo in una logica istituzionale immutata? In secondo luogo, quali spazi si aprono all’azione pubblica in questo contesto e come essi finirebbero ulteriormente a ridursi, se le esperienze che maggiormente potrebbero “ripoliticizzare le contraddizioni” dei sistemi di welfare, vale a dire quelle contigue al mutualismo dal basso, si limitano ad una sussidiarietà in ultima istanza residualistica e se è – parallelamente – impossibile nelle realtà di terzo settore (e nel resto dei servizi) mettere a tema la questione delle condizioni di lavoro e costruire, in relazione con il fuori – la forza contrattuale necessaria a rifiutare un mandato di mera gestione e controllo sociale?
Un ultimo accenno sulla critica femminista, che verrà ulteriormente approfondita nell’articolo attraverso le parole di Franca Ongaro Basaglia e le ricerche di Annacarla Valeriano. In un contesto come quello odierno, in cui la distinzione tra lavoro produttivo e riproduttivo si è declinata nella retorica del lavoro essenziale (essenzialmente produttivo) ed è stata usata per ulteriormente relegare nell’invisibilità il complesso sistematico di attività formali e informali che permettono alle comunità di sopravvivere (spesso quelle in cui si annidano i più alti livelli di sfruttamento, invisibilizzazione, segmentazione razializzata e genderizzata, ricatto esistenziale) si è evidentemente esacerbata, durante la sindemia, l’oppressione basata sul genere: coloro che, socializzate per interiorizzare il dovere della cura, sono considerate giacimenti di risorse infinite da sfruttare (come la natura) hanno subito una maggiore incidenza di fenomeni ansiosi, depressivi, violenti, anche in casa. La mistificatoria rappresentazione dello spazio domestico come “sicuro” ha contribuito a rendere indicibili oltre che invisibili le quotidiane violenze subite dalle donne.
Con la retorica della resilienza si è messo in moto un sistema di aiuti volto principalmente a rappresentare come indiscutibile la centralità del lavoro produttivo rispetto al rischio che venisse messo in questione “perché stiamo producendo?” e “che tipo di vita collettivamente riproduciamo mentre produciamo?”, che permetterebbero invece di mettere in questione l’invisibilizzazione del lavoro di cura, e magari andare verso un’organizzazione della società incentrata su un concetto di cura del vivente allargato. In questo senso le questioni di genere sono oggi fondamentali per un rilancio dei servizi sociosanitari che tenga conto dei nodi aperti della deistituzionalizzazione.
Come scrive il collettivo femminista La Laboratoria, “se hai buoni servizi pubblici, avrai meno bisogno di lavorare tante ore, se hai un accesso dignitoso all’alloggio senza dover pagare affitti enormi, sarai meno soggetto ad accettare eventuali condizioni di lavoro, se non sei obbligato a indebitarti, alla fine del mese sarai meno esposto ad accettare qualsiasi condizione di lavoro”. La lotta per servizi sociosanitari di qualità è inscindibile dalla lotta per un diverso concetto di cura e dalle battaglie contro la norma patriarcale e il genere come suo principale strumento di comando. Tali lotte vanno riversate nella riflessione e nella azione pubblica sulla salute, inimmaginabili senza percorsi dal basso di autodeterminazione, che permettano l’emersione di bisogni, altrimenti destinati a rimanere nascosti e insabbiati, di popolazioni marginalizzate e oppresse. Come mostrano alcune recenti esperienze, questo discorso si declina in particolare rispetto alla medicina di genere, alla salute mentale e alla salute della popolazione migrante.
Fonte: Una certa idea