Continua il viaggio di VITA all’interno del mondo della psichiatria italiana. In Lazio i servizi pubblici di salute mentale sono in sofferenza e spesso i pazienti si ritrovano bloccati in un ciclo cronicizzante di ricoveri e cure farmacologiche, tra strutture pubbliche e private. Secondo Piero Cipriano, psichiatra in un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura-Spdc, siamo in un sistema di manicomialità più sofisticata: «Prima gli internati non potevano tornare a casa perché erano rinchiusi, ora perché girano tra diverse strutture»
La parola psichiatria è formata dai termini greci «psyché», che significa anima, e «iatreia», che significa cura. Stando all’etimo, quindi, questa disciplina dovrebbe consistere nella cura dell’anima, che è qualcosa di più profondo e complesso della semplice mente. Secondo lo psichiatra e scrittore romano Piero Cipriano, tuttavia, in gran parte d’Italia la salute mentale ha dimenticato il suo scopo più nobile e tende a ridursi a un ciclo oggettivizzante – e cronicizzante – di diagnosi e somministrazione di farmaci. Questo accade in modo particolare in Lazio, dove si torna a parlare di questo tema dopo un tragico incidente avvenuto nella notte tra l’11 e il 12 gennaio, che ha visto coinvolto un ventenne fuggito da un Trattamento sanitario obbligatorio-Tso presso l’ospedale Grassi di Ostia (Rm), travolto da un autobus sulla via del Mare, in circostanze ancora da chiarire.
Dottore, abbiamo intrapreso da qualche tempo un viaggio nella salute mentale in Italia. Ci racconta com’è la situazione in Lazio?
Io lavoro in questa Regione ormai dal 2006, dopo essere stato in vari luoghi d’Italia, dal Friuli alla Campania. Il Lazio è il territorio dei grandi manicomi privati, dei cosiddetti «imprenditori della follia». Quando Franco Basaglia, nel 1979, venne a Roma per dirigere i servizi di Salute mentale, sapeva che quella contro strutture non pubbliche sarebbe stata una battaglia complessa; oggi, infatti, non si è riusciti a eradicare del tutto gli ospedali psichiatrici privati, che hanno cambiato nome – oggi hanno acronimi come Stpit o Srsr (Struttura per trattamenti psichiatrici intensivi territoriali e Struttura residenziale socio-riabilitativa ad elevata intensità assistenziale socio-sanitaria, ndr) – ma restano, in molti casi, realtà dove le persone vengono riempite di farmaci. Proprio stanotte è arrivato nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) dove lavoro un uomo proveniente da una di queste cliniche: ho visto la quantità enorme di medicinali che gli somministravano.
E questo che ricaduta ha sui servizi pubblici di Salute mentale?
Le strutture private in Lazio ricevono metà del budget dedicato alla salute mentale. Questo fa sì che nel pubblico i dipartimenti siano sguarniti. I Centri di salute mentale-Csm lamentano di non potersi permettere aperture sufficienti, visite domiciliari e terapie psicologiche con la giusta frequenza. Non ci sono le risorse e quindi nemmeno l’equipe multidisciplinare complessa che dovrebbe esserci in un Csm.
A rimetterci sono quindi i pazienti.
Ormai si è instaurata una modalità circolare per molte persone cronicizzate: fanno un ricovero in Spdc, il reparto dove viene ricoverato chi è in una fase acuta, poi passano uno o due mesi in una clinica privata, dopo magari stanno in una comunità per un po’ e alla fine vanno al Csm una volta al mese. In questo modo, però, le crisi tornano facilmente e il ciclo ricomincia da capo; si tratta di un «gioco dell’oca dell’acuzie», derivato da una presa in carico debole.
Ci spiega meglio questo concetto?
Con la gestione del denaro che abbiamo in questo momento in Lazio, i Csm sono piuttosto deboli. A un Csm debole, però, corrisponde sempre un Spdc «forte», in cui si applica la contenzione, la sedazione, la chiusura. Al contrario, i luoghi che hanno dei Csm forti, ben radicati sul territorio, possono permettersi degli Spdc deboli, in cui non si lega. Penso che siamo in un sistema di manicomialità più sofisticata, quello che io definisco un «terricomio». Prima gli internati non potevano tornare a casa perché erano rinchiusi, ora perché girano tra diverse strutture.
La serie Netflix “Tutto chiede salvezza”, tratta dall’omonimo libro di Daniele Mencarelli e ambientata in un Spdc romano, ha fatto molto successo negli ultimi mesi. Cosa ne pensa?
Tutto sommato non mi è dispiaciuta, perché mi è parso che volessero suggerire come dovrebbe essere l’operatore, una persona con le sue fragilità, che però prova a fare ciò che può per i pazienti. Il reparto che hanno raccontato, tuttavia, non è reale, è una sintesi di diversi tipi di Spdc: per certi versi è accogliente, leggero, c’è un solo infermiere per ogni turno e le porte sono aperte, per altri versi si dà per scontato che il paziente venga legato e sedato. È come se avessero voluto fondere le realtà restraint e no restraint in un’unica rappresentazione.
Quindi a Roma, in realtà, non esistono reparti così.
No. Forse le caratteristiche migliori possono ricordare alcuni reparti di Trieste. Dove però, ovviamente, non si lega.
Come mai la riforma basagliana non ha attecchito in tutto il Paese?
Credo ci siano tante ragioni; una di queste è che la riforma all’epoca fu sollecitata da una minoranza di psichiatri, che si fece egemone e riuscì a dar vita alla Legge 180. La maggior parte degli operatori, però, ha ancora in mente una salute mentale legata al manicomio, nato come il fratello gemello della psichiatria.
“Un Centro di salute mentale dovrebbe essere un luogo dove si erogano psicoterapia e psicofarmaci, ma anche un posto dove ci si occupa della miseria, dove si procura un vero lavoro e non ergoterapia, dove si instaurano delle relazioni. Dovrebbe essere uno spazio aperto, un’agorà in cui puoi andare in qualsiasi momento, anche se non sei un paziente”.
Piero Cipriano
Cosa ha in mente, invece, la minoranza?
L’intuizione terapeutica di Franco Basaglia, che non era semplicemente «eliminiamo il manicomio». Era quello che raccontò lui stesso durante le conferenze che tenne in Brasile nel 1979. Un interlocutore gli chiese cosa fosse per lui la terapia e lui rispose che è «lotta contro la miseria», che significa stare vicino ai bisogni primari delle persone: ricevere delle cure, ma anche avere un lavoro, una casa e una vita dignitosa. Un Centro di salute mentale dovrebbe essere un luogo dove si erogano psicoterapia e psicofarmaci, ma anche un posto dove ci si occupa della miseria, dove si procura un vero lavoro e non ergoterapia, dove si instaurano delle relazioni. Dovrebbe essere uno spazio aperto, un’agorà in cui puoi andare in qualsiasi momento, anche se non sei un paziente.
Ma oggi, a quanto pare, non si sta andando in questa direzione.
La Legge 180 conteneva intuizioni profonde e radicali. Noi non abbiamo violentato il manicomio, abbiamo violentato la società. Quando Marco Cavallo (la statua blu realizzata all’interno dell’ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste, simbolo della rivoluzione basagliana, ndr) ha portato gli internati in città è stato come se dicesse «Riprendetevi l’escluso, perché anche la follia fa parte della società». Si tratta di un’idea così potente che è difficile darle continuità, non tutti gli operatori ci riescono: è più semplice affibbiare un’etichetta, senza mettersi in discussione, dichiarare le persone inguaribili e dar loro dei medicinali per tenerle buone.
E i pazienti, cosa ne pensano?
Capiscono la differenza di approccio tra un operatore e l’altro. Una volta un ragazzo ha detto a un corteo di medici: «Siete fatti tutti con lo stesso stampino». È un ritorno straordinario, di cui però molti psichiatri non si rendono conto. Ci sono pazienti che si comportano in modo violento con certi operatori piuttosto che con altri. La diagnosi in psichiatria è solo semantica, se riesci a relazionarti con l’altro puoi imparare molto. Devi instaurare un certo tipo di rapporto, un io-tu e non un io-esso, comprendere che dottore e malato sono due persone gettate nel mondo, ciascuna con le proprie fragilità e le proprie strategie per affrontarle.
Pensa che ci potrà essere, in futuro, una nuova rivoluzione basagliana?
Per gli anni in cui ha operato, Basaglia ha fatto qualcosa che nessun altro prima aveva fatto, ma dopo il mondo è cambiato. Il 1980 è stato un anno spartiacque: Basaglia è morto ed è stato pubblicato il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm-III), che si professa ateorico e che contiene solo malattie e sintomi. Si tratta di una visione psicopatologizzante: il lutto diventa depressione dopo due settimane, la timidezza si trasforma in fobia sociale. C’è stata un’esplosione di farmaci anche per le piccole sofferenze, per permettere a tutti di essere sempre performanti. Non ci sono più luoghi concentrazionari come gli ospedali psichiatrici, ma si è inverato un altro tipo di manicomio, più sofisticato, fatto di ingabbiamento diagnostico e molecolare. Basaglia tutto questo non l’ha potuto affrontare, perché non l’ha vissuto: le sue idee sono il punto di partenza per andare oltre e reagire alla realtà attuale.
Fonte: VITA