24 OTT – Gentile direttore,
una recente dichiarazione di Silvio Garattini sulla responsabilità ed indipendenza dei sanitari mi da’ l’occasione di proporre una riflessione che riguarda per l’appunto i medici e i loro ruoli. Di chi siamo noi medici? A chi dobbiamo dare conto? Ad Ippocrate, ai Direttori di Dipartimento o Generali, agli Assessori alla Sanità, ai Ministri, ai nostri conti bancari? Non intendo rivendicare un’astratta e ideale autonomia e neppure negare il valore delle gerarchie. Un’indipendenza totale non ce l’hanno neppure i giudici che posseggono un organo indipendente per valutarne gli eventuali eccessi o sforamenti. Vale tuttavia la pena porre ai miei colleghi questo interrogativo dal momento che siamo chiamati a rispondere con le nostre azioni, i nostri strumenti, le nostre competenze, a interlocutori altri che non siano le persone in sofferenza, i pazienti, gli utenti dei servizi in cui in cui operiamo. Faccio un esempio legato anche alla mia professione di psichiatra. In nome di chi si pronuncia il medico, non per forza uno specialista, chiamato a certificare l’idoneità di una persona migrante ad essere ‘internata’ in un Centro per il Rimpatrio e la sua compatibilità con lo stato di reclusione in cui sarà ristretta per aver commesso un reato amministrativo? Sta espletando una mera pratica burocratica come richiestogli, più o meno implicitamente, dall’autorità di polizia? Sta facendo il suo mestiere in Scienza e Coscienza? È consapevole di quel che sta compiendo, delle conseguenze della sua firma apposta in calce ad un modulo? Conseguenze che riguardano la salute, fisica e mentale, di una persona?
Discutiamo da tempo come categoria sull’autonomia decisionale dei medici rispetto agli amministratori, rivendicando, a ragione, la soggettività del professionista e, perché no, quella della persona. Sosteniamo lotte sindacali anche in nome di questo valore. E poi, nella pratica, i colleghi chiamati a pronunciarsi, lo rispettano? Sono consapevoli e responsabili di quanto fanno, di perché lo fanno, di per chi lo fanno? Un errore medico è sempre possibile, lo sanno bene quelli che sono costretti a lavorare in condizioni di stress e di carenza di personale e risorse per il Servizio Sanitario Nazionale. Contro queste condizioni ci si batte, come ci si ribella contro gli atti di violenza subìti, esito quasi sempre del ritrovarsi esposti in prima linea tra cittadini sempre più arrabbiati e rivendicativi e il sistema sanitario di uno Stato disattento e mancante. Ma è errore medico anche inviare uomini, donne e minori in un CPR sul suolo italiano, o magari in Albania, in un non-luogo che esiste per una “finzione di non ingresso” (funambolismo giuridico che ne giustifica l’esistenza stessa), senza sapere nulla della loro condizione reale, della loro storia, della loro provenienza, senza aver mai visto i luoghi in cui verranno condotti. Luoghi le cui condizioni sono peraltro sempre più note grazie a giornali e televisioni e che sono ormai difficili da ignorare.
Siamo in un ambito in cui deontologia professionale ed etica si intersecano. Ma siamo anche nel campo dell’autonomia e della responsabilità professionale che non possono recedere rispetto all’ubbidienza nei confronti delle istituzioni che, come tutti, siamo tenuti a rispettare ma nei cui confronti, come medici, avremmo il dovere di manifestare dissenso quando esse ci mettono in conflitto con il nostro mandato deontologico perché pongono a rischio la salute, e sempre più spesso la vita, delle persone. Insomma, siamo indipendenti nella nostra professione o burocrati chiamati a sottoscrivere atti delle cui conseguenze possiamo dirci irresponsabili? Sarebbe bello se la Sua testata potesse aprire un confronto su questi temi.
Antonello D’Elia
Fonte: Quotidiano Sanità