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Da sempre, la musica è un mezzo importantissimo per tirare fuori ogni tipo di emozione, dalla gioia alla rabbia fino alla paura: cantare di certo aiuta, ma ancora di più mettere nero su bianco quelle emozioni, scrivere il testo e poi adagiarlo sulle note giuste.
Di certo, è stato così per BigMama, giovane rapper di origini avellinesi, che quest’anno calca il palco di Sanremo da protagonista, con il brano La rabbia non ti basta, dopo aver debuttato l’anno scorso accanto a Elodie nella serata dei duetti. «Ho scritto il mio primo brano a 13 anni dopo che alcuni ragazzini mi hanno tirato delle pietre addosso per il mio aspetto fisico», rivela la cantante in un’intervista al Corriere della Sera, confessando un passato fatto di bullismo, per via del suo aspetto, ma anche di violenza fisica.
«Ora sto bene e mi sento bona» e tiene a precisare che è una canzone di rivalsa, ma non di vendetta: «Nella mia musica mi piace mettere sempre messaggi forti e questo è un pezzo che chiude un cerchio di rivalsa. Il senso è quello di non avere paura di credere in se stessi, di non farsi condizionare da quello che pensano gli altri; è anche un modo per scusarmi con la me bambina: se ti dicono che non puoi cantare perché sei grassa, perché sei donna, perché vieni da un paesino, fregatene».
Come funziona la «terapia della scrittura» nell’elaborazione del dolore
La scrittura come espediente terapeutico per elaborare un dolore, per esprimere ciò che si ha dentro: perché funziona così bene? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Nicoletta Cinotti, psicologa e psicoterapeuta, esperta di scrittura e meditazione, con un libro in arrivo proprio sul Mindful writing. Siamo partite insieme dall’esempio di BigMama, ma senza l’intenzione di analizzare il suo caso, bensì prendendolo come spunto per portare una testimonianza di come il dolore si possa elaborare con diversi strumenti: «Le mie risposte non sono affatto pareri clinici su BigMama, ma sulle situazioni che lei, come migliaia di altre persone, hanno vissuto e vivono quotidianamente», nell’ottica che parlarne, condividere determinate condizioni può aiutare altri a venirne fuori.
Partiamo da una situazione molto comune: quanto può far male il giudizio della gente? E che genere di dolore può causare?
«Noi siamo animali sociali con una memoria ancestrale che ci fa credere che essere espulsi da un gruppo metta a rischio la nostra stessa sopravvivenza. In effetti, per gli uomini primitivi era così: l’esclusione dalla tribù comportava morte certa e solo i membri che avevano infranto gravemente le regole subivano questa forma di esclusione. Oggi non è più così in senso letterale, ma per ognuno di noi sentirsi parte di una cerchia di relazioni, sentirsi amato, soddisfa un senso basilare di sicurezza. Cerchiamo l’approvazione delle persone che stimiamo e cerchiamo di evitare la disapprovazione diventando a volte molto accondiscendenti. Se ci siamo sentiti molto rifiutati però possiamo finire per diventare dei ribelli proprio per anestetizzare il dolore dell’esclusione. È come se dicessimo “Non sei tu che mi escludi. Sono io che non voglio avere niente a che fare con te!”».
Quando il dolore diventa rabbia? Il dolore cos’altro può diventare, se non elaborato?
«La rabbia è un’emozione di base, presente fin dalla nascita. Quando esprimiamo rabbia possiamo perdere il senso dell’altro perché siamo occupati, e a volte travolti, da un’emozione che porta oltre i nostri confini consueti. Le ragioni che attivano una risposta rabbiosa vengono percepite come istanze imprescindibili per la nostra difesa personale. Ci sentiamo attaccati e, se non siamo consapevoli delle ragioni per cui proviamo questa emozione, siamo portati a reagire.
Più la rabbia è intensa e più ci spinge ad agire velocemente e in modo impulsivo. È molto frequente che la rabbia sia proprio la risposta a un dolore che abbiamo, ma al quale vogliamo reagire per non farci sopraffare. È come se la rabbia fosse un guscio duro, esterno, che ci protegge e protegge la nostra parte ferita e vulnerabile.
Se il dolore non viene confortato può trasformarsi in depressione, nella sensazione di non avere valore, nella sensazione di essere sbagliati, difettosi. Spesso rabbia e tristezza si uniscono e allora diventano una forma di protesta che rende la rabbia cronica. Protestiamo perché abbiamo vissuto troppe ingiustizie e protestiamo a prescindere dalle situazioni specifiche. Protestiamo contro un più generale senso di ingiustizia che ci può anche rendere leader di persone che hanno vissuto quella nostra stessa esperienza, ma non hanno la forza di difendersi».
Rabbia inespressa o repressa: a cosa può portare?
«Se la nostra rabbia non trova voce può venire somatizzata. Sappiamo che le persone che soffrono di disturbi cardiovascolari sono persone che provano spesso rabbia, ma non la sanno esprimere. Il punto è che siamo troppo giudicanti nei confronti delle nostre emozioni perché abbiamo paura che ci spingano a comportamenti sbagliati. Abbiamo diritto a provare qualunque tipo di emozione e non ha senso negare a noi stessi di essere arrabbiati. Ha senso, invece, non agire impulsivamente, ma scegliere che cosa fare. Una cattiva gestione della rabbia può comportare, nel tempo, una ridotta funzionalità del sistema immunitario, ipertensione, aumento del rischio di ictus e incidenti cardiovascolari, mentre un eccessivo controllo della rabbia è associato a depressione e ansietà».
In che misura va esplorata la rabbia? E come si può fare a elaborarla?
«La rabbia può avere livelli diversi, dall’irritazione alla furia. Salire lentamente o velocemente; può avere diverse durate. Per alcuni è un rapido scoppio, per altri una lunga marea. Alcuni non possono trattenersi dall’esprimerla, altri non lo farebbero mai. Ma anche chi non la esprime può passare ore a fantasticare su come “avrebbe messo a posto” (con le mani o con le parole) la persona che gli ha suscitato rabbia.
Il punto è che, ci piaccia o no, la rabbia fa parte della vita e non è evitabile. Per questo è importante imparare come lavorare con la rabbia perché, quando non è gestita, è una delle emozioni che possono essere più dannose sia sul piano fisico che mentale e relazionale. Malgrado sia presente fin dalla nascita non possiamo identificare un’area cerebrale definita che risponde alla rabbia. Sappiamo che quando siamo arrabbiati questa emozione interagisce con molte aree del corpo e del cervello. Sappiamo anche che l’amigdala – una parte del nostro cervello – determina quando ci arrabbieremo. È un sistema contraddistinto dalla velocità perché, dovendo difenderci, deve funzionare in modo tempestivo. Per questa ragione, può succedere che ci troviamo arrabbiati senza nemmeno sapere come abbiamo fatto a passare da zero a 100 in un secondo. È importante capire che questo tipo di funzionamento non è una nostra colpa, ma semplicemente il modo in cui funziona il nostro cervello. Se non riesci a cambiare il tuo modo di gestire la rabbia non significa che non ti stai impegnando abbastanza. Significa che hai bisogno di capire meglio come funziona la rabbia. Io suggerisco un approccio compassionevole alla rabbia».
Cosa significa? Ci spieghi meglio…
«Lavorare in modo compassionevole sulla rabbia non significa che siamo pronti a sbarazzarcene, ma che siamo pronti a non farci possedere da questa emozione e per questo dobbiamo conoscere:
- come funziona nel corpo. Il corpo, quando siamo arrabbiati, si prepara a combattere. La noradrenalina viene rilasciata nel flusso sanguigno, il cuore aumenta il ritmo, la respirazione accelera, la pressione del sangue aumenta, i muscoli si tendono, la mascella si contrae e gli occhi si fissano sulla fonte della rabbia. Imparare a riconoscere il sorgere della rabbia nel corpo può aiutarci a sciogliere la tensione fisica.
- l’attenzione. Quando ci arrabbiamo il focus dell’attenzione si restringe e raccogliamo solo le informazioni collegate alla minaccia percepita, sostenute da ricordi di minacce passate. Questo restringimento dell’attenzione è involontario ed è la causa della sensazione che a volte proviamo di essere intrappolati nella rabbia e che la rabbia ci spinge a decisioni che poi non riconosciamo successivamente.
- pensiero e ragionamento. Aumentano i pensieri automatici, pensieri che sono collegati alle cose che non ci piacciono. Tendiamo a prendere tutto in maniera personale e ad avere sospetti che riguardano la nostra relazione o le nostre relazioni in generale. Questi pensieri automatici danno benzina al fuoco che già brucia. Molto spesso questi pensieri riguardano il nostro essere isolati, non amati e sfruttati dagli altri. Coltivare compassione ci aiuta ad avere meno intensità in queste sensazioni. Anche il nostro ragionamento e il modo in cui interpretiamo le informazioni è influenzato dalla rabbia perché mettiamo insieme solo informazioni che confermano il nostro modo di pensare e tendiamo a formarci opinioni negative sugli altri. Il problema è che la rabbia, a differenza di altre emozioni difficili, correla con un senso di certezza rispetto a quello che pensiamo e quindi possiamo prendere decisioni che, passato il momento della rabbia, ci sembreranno molto inadeguate.
- immaginazione e fantasia. L’immaginazione è uno strumento mentale molto potente che attiva, a livello cerebrale, le stesse aree che sarebbero coinvolte nell’atto reale. Sia le fantasie che l’immaginazione sono condizionate dal nostro umore. Nel caso della rabbia, fantasia e immaginazione servono per tenere acceso il fuoco. Diventa un circolo vizioso in cui tendiamo a sperimentare rabbia, ad avere fantasie legate alla rabbia e queste aumentano l’intensità della rabbia stessa. Il nostro cervello non sempre riconosce la distinzione tra mondo interno e mondo esterno. La buona notizia è che possiamo usare il potere dell’immaginazione e della fantasia per creare uno stato mentale compassionevole che ci faccia sentire sicuri e connessi con gli altri in modo da riuscire a gestire più efficacemente le nostre emozioni.
- motivazione. La rabbia si accompagna con una forte motivazione all’azione. Con la rabbia siamo motivati ad andare verso la situazione o la persona con la quale ci siamo arrabbiati. La sentiamo come un’urgenza. Anche in questo caso la compassione può aiutarci perché possiamo scegliere di non avere una motivazione aggressiva o immaginare le conseguenze della realizzazione di una motivazione aggressiva rispetto a quelle di una motivazione compassionevole. Il nostro cervello non ha solo un sistema di risposta alla minaccia, ma anche un sistema di risposta alla cura.
- Comportamento. I comportamenti aggressivi sono gli aspetti potenzialmente più problematici perché creano distanza e ferite anche nei confronti delle persone che amiamo. Negare l’affetto, coltivare il risentimento, disapprovare, ignorare sono tutti comportamenti collegati con la rabbia, Comportamenti che possono intaccare gravemente il clima relazionale. Troppo spesso copriamo il dolore che proviamo con la rabbia che ci fa sentire potenti mentre il dolore si accompagna a un senso di vulnerabilità. A volte la rabbia è una strategia di evitamento che ci permette di allontanarci dalle emozioni difficili. Il problema è che questa temporanea anestesia del nostro dolore è molto costosa. La self-compassion può aiutarci ad avere più strumenti per consolare il nostro dolore senza usare questa strategia compensativa».
Perché scrivere è un toccasana
«I benefici terapeutici della scrittura sono ormai ampiamente dimostrati, grazie anche alle ricerche di James Pennebaker, uno psicologo sociale di Austin in Texas. La scrittura espressiva, guidata dal desiderio di dare voce a quello che sta dentro di noi, parte da un’idea affascinante quanto controintuitiva: la nostra creatività è ampliata dal dolore. È perché soffriamo che abbiamo bisogno di trovare nuove soluzioni ed è per questo che la nostra espressività può diventare più ricca. La scrittrice indocanadese Rupi Kaur è diventata famosa postando su Instagram disegni e brevi poesie che raccontavano l’abuso subito, Ocean Vuong ha scritto tantissimo sul dolore della sua storia d’emarginazione. Luchè e Bigmama possono essere le persone che danno voce al dolore e alla rabbia di chi è cresciuto nel degrado e tutto il movimento rapper nasce come un grido espressivo che guarisce».
I benefici della scrittura terapeutica a livello fisico
«Questa scrittura non solo può aiutarci a elaborare ciò che abbiamo passato e ad aiutarci a immaginare un percorso da seguire, ma può anche abbassare la pressione sanguigna, rafforzare il nostro sistema immunitario e aumentare il nostro benessere generale. La scrittura espressiva può ridurre lo stress, l’ansia e la depressione, migliorare il sonno e le prestazioni, e portare maggiore concentrazione e chiarezza.
Le ricerche hanno dimostrato che i soggetti che scrivevano di turbamenti personali per 15 minuti al giorno per tre o quattro giorni si recavano meno frequentemente dal medico per problemi di salute e riferivano un maggiore benessere psicologico. Secondo uno studio del 2019, un intervento di scrittura di sei settimane aumenta la resilienza e riduce i sintomi depressivi. Scrivere ogni giorno qualche riga compassionevole a se stessi ha un’efficacia pari alla partecipazione a un programma di self-compassion di otto settimane.
Dobbiamo solo lottare contro un pregiudizio diffuso: quello che scrivere sia solo per pochi. La scuola ci ha insegnato a leggere e scrivere ma lo ha fatto senza tolleranza per gli errori grammaticali e sintattici. La scrittura espressiva deve essere una scrittura libera, senza paura degli errori, legata più al flusso di coscienza che ad altro, proprio come succede in molte canzoni che diventano vere e proprie poesie».
Fonte: VANITYFAIR