Siamo andati assieme a una familiare di una persona con disturbo psichico alla proiezione triestina del film di Francesco Munzi “Kripton” che racconta le storie di sei ragazzi ospiti di comunità terapeutiche. Ecco come come è andata
Trieste – Il 6 febbraio è approdato anche a Trieste Kripton, il film di Francesco Munzi (nella foto sopra, un frame dal trailer ufficiale, ndr), che racconta la vita di sei ragazzi ospiti di due comunità terapeutiche romane. Nella città famosa in tutto il mondo per il suo approccio alla salute mentale, la prima del documentario è organizzata in un piccolo cinema-teatro, poco distante dalla centralissima Piazza Unità. La sala – avrà 60 o 70 posti – è gremita, ma arrivo presto e trovo posto. Tra il pubblico, spiccano i visi di alcuni tra i protagonisti della rivoluzione basagliana e di molti operatori dei servizi. Tanti sono però anche i familiari, venuti a vedere sul grande schermo quelle storie così somiglianti alle loro, pur nella singolarità di ciascuna vita. Tra loro, anche Tiziana Tomasoni, seduta accanto a me, madre di un ragazzo con disturbo mentale.
«Non ho voluto sapere nulla prima, non ho letto la trama», mi dice. «Spero che il film parli anche di speranza. Mi piacerebbe vedere un vissuto di cura, bello, partecipato anche da parte degli operatori. Mi auguro che abbia un messaggio positivo, anche se sarà realistico; che inciti a darsi da fare, perché i segnali che vediamo non vanno proprio in questa direzione. Questi eventi vanno benissimo, perché se ne deve parlare, sempre e comunque, sollecitando chi può fare qualcosa, dalle istituzioni agli operatori sanitari, fino ai familiari come me. Ci vuole tanta energia da parte di tutti, compresi noi, che soffriamo comunque tanto, perché abbiamo carichi non da poco. Però ci vogliamo credere fino in fondo, non smetteremo mai di lottare».
Poi cala il silenzio, perché sta per prendere la parola il regista, presente in sala. Fa solo una breve introduzione, per lasciare che le immagini sullo schermo si raccontino da sole, prima del dibattito finale. La pellicola scorre, così come le vite di quei sei ragazzi, così diverse tra loro, raccontate in una quotidianità quasi senza filtri, nel loro rapporto con gli operatori e con i familiari. E sono proprio le scene che coinvolgono questi ultimi, a cui è dedicato moltissimo spazio, che fanno serpeggiare l’emozione tra il pubblico in sala. Perché questi genitori, questi fratelli e sorelle, umanissimi nel loro dolore, nelle loro emozioni e anche, a volte, negli errori che possono commettere o aver commesso, non smettono – in modi differenti – di cercare di comprendere i propri cari, anche quando c’è una componente di rabbia o di frustrazione.
Quando le luci si riaccendono, scoppia un lungo applauso. Inizia il dibattito, in cui il regista dialoga con Peppe Dell’Acqua, psichiatra collaboratore di Franco Basaglia, già direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste, sempre in prima linea nelle battaglie per la salute mentale. Quando il pubblico viene coinvolto, Tomasoni alza la mano. «Bellissimo», dice appena le passano il microfono. «Bravissimi i ragazzi, splendidi tutti quanti, nella loro profondità, sensibilità, delicatezza. In molti passaggi ho rivisto anche mio figlio, non è stata una passeggiata, devo essere sincera. Ma ho visto degli oratori meravigliosi, che hanno messo cura nel rapporto con questi ragazzi, ascoltandoli, cercando di consolarli, di arrivare a gestire le loro crisi. Ecco, io ho paura che questi operatori diventeranno merce rara. Non è colpa del professionista in sé: vengono demotivati da un sistema che – lo viviamo in prima persona ogni giorno di più – è sempre più ridotto e stressante. Anche noi familiari abbiamo bisogno di aiuto: i nostri percorsi, che abbiamo visto rappresentati stasera, sono difficilissimi e alle volte pieni di sensi di colpa. Facciamo di tutto per scacciarli, per allontanarli, ma ahimè, non è semplice. Vivo questo film come un appello a metterci più energia, più forza ed entusiasmo, anche da parte nostra, che viviamo le criticità ogni giorno».
È un grido di allarme, quello che traspare da queste parole. Un bisogno di trovare risposte che viene soddisfatto sempre meno. Del resto, come sottolineano anche i dati a chiusura del documentario, la salute mentale è uno dei settori della sanità in cui i tagli sono stati più consistenti. E la rabbia si sente anche da parte dei genitori nel film. «Non sono arrabbiata con mio figlio», afferma in un colloquio la madre di uno dei ragazzi, «sono arrabbiata con le istituzioni».
Più tardi, a mente fredda, Tomasoni mi manda un messaggio vocale. «Da mamma ho rivisto in tanti degli atteggiamenti di questi ragazzi gli stessi atteggiamenti di mio figlio», mi dice, «ma mi è piaciuto vedere degli operatori che si sono spesi per trovare le criticità, attraverso la cura, l’ascolto, la condivisione e la partecipazione. Mi spaventa tanto che la tendenza oggi non sia questa. C’è una sorta di regressione anche nella nostra città e nella nostra Regione, dove tanto si è guadagnato e tanto si è raggiunto, in termini di servizi e messa in campo di risorse. Ho anche capito che il regista ha voluto coinvolgere molto i familiari, la storia, la vita, il percorso loro e di questi ragazzi. Anche noi familiari siamo fragili, ma possiamo essere una risorsa nel percorso di cura, che però spesso non viene considerata, non viene valorizzata. Ringrazio il regista, che ha contribuito a fare un piccolo passo avanti nella lotta contro lo stigma, diffondendo in maniera così vera, spontanea, naturale – o comunque così sembra – l’esperienza di questi giovani, di questi parenti, degli psichiatri e di tutti quelli che si mettono in gioco. Magari ci fossero tanti come Francesco Munzi, che fanno queste cose, che contribuiscono a combattere il maledetto stigma che c’è nei confronti della salute mentale».
Fonte: VITA