di Lucia Fiorillo, Caterina Cortese, Renzo Muraccini, Maria Luisa Pontelli
Salute mentale, diritti e identità delle persone senza dimora
Il lavoro dedicato alla salute mentale è un lavoro di “frontiera”. Ha come obiettivo, da un lato, quello di capire come le trasformazioni sociali agiscono sull’equilibrio psichico delle persone causando sofferenza, disadattamento e malattia mentale e, dall’altro, prendersi cura di tali manifestazioni con l’obiettivo di ridurne o prevenirne gli effetti sulla vita delle persone.
Nel mondo di oggi le patologie mentali non solo sono in aumento e insorgono più precocemente ma, per alcuni aspetti, risultano davvero inedite rispetto al passato e legate soprattutto al tema dell’identità delle nuove generazioni, al loro ritiro sociale a cui fa da contraltare l’antisocialità gruppale, alle dipendenze (trasversali ormai a tutte le forme di sofferenza), ai disordini alimentari, all’autolesionismo, ai tentati suicidi, a cui aggiungiamo il traumatismo della migrazione e la “marginalità sociale” in tutti i suoi aspetti.
Se focalizziamo l’attenzione su quest’ultima fascia di popolazione, le persone senza dimora che incontriamo sulle strade delle nostre città, salta all’occhio che esse rappresentano una “categoria identitaria” di esseri umani che ad uno sguardo superficiale paiono tutti uguali, identificati e intrappolati nel loro stile di vita ma che, ad un’analisi più profonda, non lo sono affatto. Per chi lavora da anni in un Centro di Salute Mentale è, invece, evidente che le persone senza dimora esprimono bisogni complessi e un’identità alienata che li accomuna. Questa condizione si struttura anche sull’assenza nella loro vita di alcuni diritti o della impossibilità di esercitarli quando li acquisiscono: il diritto alla residenza, alla casa, all’assistenza sanitaria, con l’effetto di escluderli dal sistema sociale e sanitario in cui tutti viviamo.
Partendo dal riconoscimento che le soluzioni tradizionali di risposta all’homelessness non sempre sono sufficienti ed adeguate (ad esempio i dormitori in cui l’inevitabile promiscuità forzata può essere fonte di angoscia e quindi di rifiuto per chi è abituato a vivere in strada e a scegliere con chi aggregarsi), è di fondamentale importanza ribadire che il paradigma con cui si attiva l’intervento di aiuto deve fondarsi sulla questione relativa al “come” e “perché” si è arrivati a quella “soluzione di vita” e al “senso” e al “valore” che l’”essere senza dimora” ha per quella specifica persona.
Modelli di intervento nel lavoro con le persone senza dimora
L’approccio dominante oggi in materia di salute mentale e homelessness è di tipo prestazionale. Solitamente il primo contatto avviene in strada, appunto mediante le Unità di Strada che indirizzano ed accompagnano le persone presso i luoghi alternativi (dormitori) e i servizi specialistici (CSM, SERD, Servizi Sociali).
L’aggancio di un essere umano che si vive fuori dalle regole e dai ruoli sociali attraverso un “corpo maltrattato” che gli è difficile “abbandonare”, necessita di proseguire con un’azione continuativa di sostegno psicologico, in primis, e di accompagnamento verso l’accesso ai diritti di base, al fine di poterne usufruire per potersi affrancare da una vita precaria e sofferente.
Spesso, ad uno sguardo iniziale, tale stile di vita può risultare l’esito di una scelta consapevole da parte del soggetto, non modificabile, né tanto meno sofferta e quindi da cambiare, ma semmai aiutata ad essere mantenuta. Al giudizio dei più viene poi fatta coincidere ad una mancanza di volontà, una scelta “responsabilmente irresponsabile” perché opportunistica e libera da ogni forma di obbligo individuale e sociale, in una parola “parassitaria” e frutto di una scelta libera e autodeterminata che recide ogni possibile alternativa.
Invece, è l’approccio basato sulla conoscenza e l’ascolto a permettere di uscire dai pregiudizi, ripercorrendo a ritroso il cammino che ha portato le persone in strada, dando valore e comprensione alle ragioni di quella scelta. Significa ascoltare la storia della persona, conoscerne i traumi vissuti nel contesto familiare (spesso riconducibili all’infanzia), i lutti, le crisi identitarie, il disagio psichico che spesso si manifesta con tossicodipendenza, alcolismo e comportamenti antisociali che finiscono per alimentare il pregiudizio e la sostanziale immodificabilità o l’aggravamento di questo stile di vita. Molte volte le persone senza dimora con disturbi legati alla salute mentale o alle diverse forme di dipendenza o apparentemente senza alterazioni visibili o certificabili hanno vissuto “un inciampo”, una “rottura” (breakdown), una “svolta” da un corso di vita che non ha potuto più essere sostenuto e nutrito da buone relazioni sociali, da un lavoro dignitoso, da una casa, da un ruolo all’interno del contesto familiare. La perdita di tutto questo, o di parte di esso, comporta inevitabilmente una compromissione della propria identità e del proprio percorso esistenziale, generando vissuti e comportamenti disadattivi, disfunzionali e alienanti che, se non trovano il sostegno adeguato, finiscono per evolvere in una forma di vita marginale.
È questo il paradigma che sottende al lavoro con i senza dimora e da cui non è possibile astenersi. Ascoltare le storie di vita, cercare di capire quali e a quale scopo si sono organizzate le strategie di adattamento ad un contesto sociale diventato escludente ed avverso, rappresentano un approccio faticoso, complesso e a volte estenuante, che però permette alle persone senza dimora di uscire da un’identità reificata, per sentirsi in qualche modo vive.
Le persone senza dimora sono portatrici di una sofferenza di tipo “bio-psico-sociale” che rende difficile il loro inserimento nel circuito sociale e sanitario e, ancor più, le allontana dall’esercizio maturo e consapevole dei propri diritti civili, sociali e sanitari. Allo stato attuale il tema è socialmente rilevante, contraddittorio, complesso, sostenuto da logiche diverse e da percorsi differenti. Poiché la sofferenza bio-psico-sociale è complessa, si sono realizzati nel tempo servizi specialistici basati sulle competenze di settore e su soluzioni o terapie a breve raggio. Nel tempo, sulla base di questo concetto di specializzazione si è creata la Rete dei servizi che comprende la Medicina di Base, i SERD, la Psichiatria, la Giustizia, l’Ordine Pubblico, i Servizi Sociali, a cui si aggiungono il Terzo settore e il volontariato nelle sue diverse forme.
Come evidenziato dal confronto tra i coautori, la persona senza dimora “è tenuta in vita” da tanti servizi. Il problema principale è che spesso le equipe coinvolte costruiscono un progetto dove ogni professionista e ogni servizio agisce solo in base a ciò che ritiene di propria competenza, senza uno sguardo complessivo. Il “Marginale Sociale” rischia quindi di diventare il “Marginale Istituzionale”, malgrado l’esistenza di momenti istituzionalizzati di incontro (come l’Equipe Territoriale Integrata o l’Unità di Valutazione Multidisciplinare) in cui i vari servizi si confrontano sui casi e cercano di individuare una strategia comune d’aiuto in un’ottica di integrazione socio-sanitaria.
Occorre, tuttavia, fare un distinguo nelle modalità con cui grandi città e cittadine di provincia affrontano il tema della salute bio-psico-sociale della popolazione senza dimora. L’esperienza ci racconta che il sistema territoriale delle province riesce ad oggi, con maggiore efficacia, ad integrare le persone senza dimora in un circuito sociale e socializzante che, anche grazie ad un atto solidaristico che in provincia rappresenta un collante sociale tra operatori sanitari, servizi sociali, Terzo settore, volontariato e cittadini, colma di fatto la mancanza di risposte istituzionali e rappresenta un valore aggiunto indispensabile nelle strategie di intervento.
Nella città metropolitana la popolazione dei senza dimora è più complessa e articolata, indubbiamente più difficile da accogliere. I servizi sono tanti e faticano a comunicare e quel valore aggiunto rappresentato dalla partecipazione attiva e solidaristica degli operatori a prescindere dalle loro competenze fa più fatica a fare sistema, trovandolo spesso nell’incontro informale con operatori e colleghi sensibili e desiderosi di condividere, e non dividere, la preoccupazione per un caso difficile.
Strategie per affrontare un fenomeno complesso
Integrazione, collaborazione e approccio olistico sono le parole chiave da cui partire per affrontare efficacemente il fenomeno complesso della salute mentale per le persone senza dimora. Le strategie per percorrere tali strade sono:
- ripartire dalla vicinanza e dalla prossimità fisica tra i professionisti. Creare luoghi in cui operatori della Salute Mentale, del SERD, Medici di Base, Infermieri, Educatori, Assistenti Sociali, Operatori di Strada e del Terzo settore possano lavorare insieme, condividendo saperi e competenze. Fondamentale che questi luoghi non diventino ghettizzanti ma che siano concepiti come luoghi di “transito identitario per i senza dimora”, flessibili e collaborativi, a forte impronta evolutiva, ossia finalizzati a superare la marginalità in tutti i suoi aspetti (ruolo sociale, casa, lavoro e relazioni);
- aprirsi alla comunità e investire sul coinvolgimento delle risorse sociali e sulle reti informali presenti sui territori. La salute bio-psico-sociale dei senza dimora è una questione che riguarda tutti e tutti possono offrire il proprio contributo a supporto dei soggetti più fragili in un’ottica di integrazione e de-stigmatizzazione;
- istituire un Fondo Comune appannaggio del Servizio Sociale, della Psichiatria, del SERD, per stabilire responsabilità comuni, anche di tipo economico, nella presa in carico delle persone più fragili ed emarginate;
- promuovere una formazione professionale continua che aiuti a costruire un consenso, un’idea condivisa di come lavorare insieme tra professionisti diversi, pur mantenendo una loro identità professionale;
- mostrare cautela, delicatezza, sensibilità e pazienza nell’approcciarsi alla sofferenza bio-psico-sociale che, per sua natura, necessità di uno sforzo di comprensione e gestione che investe anche la sfera culturale e soprattutto l’azione politica. Questo vuol dire mettersi in un atteggiamento di ascolto rispettoso, non giudicante, che offre proposte e prospettive alla persona pur lasciandola libera di poter vivere la propria identità, malgrado tutto;
- valorizzare le forme di collaborazione e integrazione informale che avvengono spontaneamente tra specialisti del sociale e del sanitario, indicando alcune pratiche virtuose realizzate nei piccoli centri;
- investire nella prevenzione, ovvero moltiplicare i luoghi nei quali si affrontano i temi della salute mentale, partendo dalla famiglia, dalla scuola, dai posti di lavoro. La prevenzione deve essere concepita come la base per affrontare l’insorgere di problematiche di salute mentale.
La costruzione dal basso di un servizio integrato: l’esperienza dell’Associazione Opera diocesana Betania ONLUS
Come ci spiega Maria Luisa Pontelli, coordinatrice dell’Associazione Opera diocesana Betania, nella provincia di Udine, in Friuli Venezia Giulia, c’è da tempo una sensibilità al tema della salute mentale, che ha portato oggi a prassi consolidate e collaborative, e a una visione culturalmente informata rispetto alla presa in carico di persone senza dimora con problemi di salute mentale. Betania si occupa, fin dagli anni ’80, di accoglienza e accompagnamento di persone senza dimora, con l’apertura del primo gruppo appartamento, inizialmente pensato per le persone senza dimora con problematiche di giustizia. Sono gli anni della Legge Basaglia (Legge 180/78), e di tutto il movimento culturale che ne consegue e influenza profondamente le prassi e l’organizzazione dei servizi in salute mentale, e della grande diffusione sul territorio regionale dei Club degli alcolisti in trattamento e dell’approccio ecologico sociale ai problemi alcolcorrelati e complessi. La comunità territoriale diviene così luogo e soggetto della costruzione del benessere e del miglioramento della qualità di vita per le persone con sofferenza psichica e con problematiche alcolcorrelate.
Betania nasce ed evolve, ponendo al centro la promozione di un lavoro di rete fra i Servizi Sociali, la Salute Mentale e i Servizi per le Dipendenze. Nel tempo, muta e si amplia anche l’attenzione ai destinatari: grazie all’incontro con la Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora (fio.PSD) e ad un conseguente percorso di formazione realizzato nella città di Udine promosso dalla Caritas diocesana di Udine, a cui ha partecipato tutta la rete dei soggetti pubblici e del privato sociale attivi nell’ambito della grave emarginazione. La formazione ha consentito ai professionisti di guardare alla povertà estrema come a un fenomeno multidimensionale, mettendo in discussione l’approccio emergenziale basato esclusivamente sull’erogazione di servizi di bassa soglia e di risposta ai bisogni primari. Attraverso un continuo lavoro di equipe, formazione e supervisione degli operatori, Betania si apre così sempre più all’accoglienza e all’accompagnamento di persone che vivono situazioni complesse di homelessness, spesso con problematiche di salute mentale e dipendenze. Vengono progressivamente aperte sul territorio della provincia comunità residenziali, di piccole dimensioni e, grazie all’adesione al Network Housing First Italia, vi è un costante ripensamento di metodologie e prassi. I principi ispirati alla recovery e al lavoro di comunità, la progettazione personalizzata, l’attenzione all’empowerment delle persone, dei gruppi e delle comunità, la separazione tra casa e trattamento, e la riduzione del danno permeano le pratiche degli operatori e informano le relazioni tra servizi.
Oltre che nella promozione attiva dell’approccio Housing First sul territorio della provincia di Udine, Betania si impegna a condividere una visione dell’homelessness che non può essere semplificata o semplificante, ma che necessita dell’attiva collaborazione di tutti i soggetti della rete per la costruzione di percorsi significativi di uscita dalla condizione di grave emarginazione. I percorsi di inclusione delle persone senza dimora e con problematiche di salute mentale e dipendenze non possono avvenire che nella comunità locale e nella progressiva ricostruzione di relazioni significative nella stessa. Questo significa per tutti i soggetti coinvolti coltivare uno sguardo e un’azione plurale, accettando per ognuno la necessità di andare oltre ai propri singoli confini e alla frammentazione o all’iper-specializzazione degli interventi.
Questo lavoro, che necessita di una continua manutenzione di rapporti, di un’azione di advocacy da rappresentare a tutti i livelli (nei percorsi di affiancamento degli individui, come pure a livello delle politiche locali e regionali), di percorsi comuni di formazione e supervisione, si è reso possibile anche grazie a cornici istituzionali e prassi strutturate di collaborazione fra i servizi. Esse sono sostenute anche da Leggi regionali del Friuli Venezia Giulia (LR 41/96, LR 10/98, ma soprattutto la LR 6/2006) che normano le modalità di collaborazione fra i Servizi Sociali, Sanitari, altri enti pubblici ed enti di Terzo settore i quali, attraverso alcuni strumenti (per es. le cosiddette Unità di Valutazione Multidisciplinare), concorrono a definire insieme alle persone destinatarie i loro progetti individualizzati. Oltre a questo, si sono nel tempo sottoscritti Protocolli e Intese Territoriali per la presa in carico integrata delle persone che vivono situazioni di grave emarginazione sul territorio dell’ex provincia di Udine.
In conclusione, fra i fattori facilitanti, che rendono l’esperienza di Betania, una buona prassi vi sono:
- una congiuntura storica che ha favorito la sensibilizzazione al tema della salute mentale, generato l’avvio di esperienze di lavoro dal basso e prassi, e una cultura della condivisione tra lavoro sociale e sanitario, che è andata a consolidarsi negli anni diventando sistema grazie ad una Legge regionale;
- un contesto urbano di piccole dimensioni, che facilita la costruzione di forme di collaborazione, anche informali, tra professionisti del settore sociale e sanitario;
- la costante “manutenzione” dei rapporti di collaborazione con il settore pubblico e la rivisitazione delle prassi per mantenere alta l’attenzione sulla responsabilità condivisa nella presa in carico delle persone senza dimora.
Fonte: welforum