a cura di Camilla Valerio
Diversi sono i personaggi famosi che negli ultimi anni hanno portato all’attenzione del pubblico il tema della salute mentale nello sport. Da Simone Biles che si ritira dalla maggior parte delle gare all’Olimpiade del 2021 a causa dello stress e di una condizione mentale non ottimale, passando per Naomi Osaka che abbandona il Roland Garros perché non vuole subire la pressione mediatica delle conferenze stampa, il messaggio principale che viene trasmesso è che anche gli atleti sono fragili, anche loro hanno paura di fallire e a volte si devono fermare e farsi aiutare.
In dialogo con Giulia Rulli, psicologa dello sport e mental trainer – nonché campionessa mondiale di 3×3 di pallacanestro e atleta olimpica – abbiamo cercato di capire a che punto stiamo in Italia rispetto a questo tema e in che modo la figura di un’esperta può aiutare le squadre, i singoli atleti e le persone che gravitano intorno a trovare un equilibrio tra benessere mentale e fisico.
A che punto siamo nel far entrare il tema della salute mentale nel mondo dello sport?
“Bisogna prendere atto che il tema sussiste già: la salute mentale è già dentro gli ambienti sportivi.” Secondo Rulli infatti, grazie all’attenzione posta da grandi campioni negli ultimi anni e in seguito a fatti di cronaca come il suicidio di Julia Ituma e le denunce provenienti dal mondo della ginnastica ritmica, la salute mentale degli atleti è un problema che non si può più nascondere.
È qui però che iniziano le due fasi più difficili: l’accettazione e il reperimento delle risorse. L’esperta ci tiene infatti a precisare che “gli psicologi dello sport (non i mental coach improvvisati) ci sono e sono formati, la questione è che molte società sportive devono riuscire ad ammettere che hanno bisogno di una mano dal punto di vista relazionale. Non solo tra atleti ed allenatori ma anche all’interno delle fasce dirigenziali stesse.”
Secondo l’esperienza dell’intervistata, infatti, le resistenze più forti si trovano principalmente nei piani alti delle società, mentre atleti ed allenatori sono molto più aperti e accoglienti rispetto al tema della salute mentale: “ho fatto diversi incontri con settori giovanili di luoghi e società diverse incontrando un atteggiamento molto propositivo. I ragazzi erano i primi a chiedermi: quando ci vediamo la prossima volta?”
Salute mentale e società sportive
Rulli racconta che nelle discipline individuali, soprattutto in quelle più logoranti come il nuoto, il supporto psicologico è utilizzatissimo e nelle serie A di pallavolo, sia maschili che femminili, lo psicologo dello sport è un tassello praticamente sempre presente. La Federazione Italiana di Tennis punta molto sulle competenze, stabilendo che per diventare preparatori mentali si deve aver conseguito una laurea in psicologia e l’esame di stato.
Le scuole calcio d’élite – ovvero quelle che hanno ottenuto un riconoscimento dalla FIGC perché soddisfano determinati requisiti rivolti alla tutela dei ragazzi – hanno l’obbligo, nei settori giovanili, di mettere a disposizione uno psicologo dello sport. “Basket e calcio di serie A invece sono realtà che sono rimaste ancora un po’ indietro, basti pensare che l’Olimpia Milano – una delle squadre italiane più importanti – non ha nel organigramma della serie A un esperto in questo campo.”
L’importante ruolo dei genitori per la salute mentale dei giovani sportivi
La salute mentale nello sport è determinata da diversi fattori. Il lavoro di Rulli è anche in campo divulgativo; con il progetto Mind the sport su Instagram, Giulia Rulli si concentra soprattutto su tre concetti: la reazione e accettazione dell’errore, l’importanza dello sviluppo di una carriera professionale e di interessi che vadano di pari passo agli impegni sportivi e infine, il ruolo dei genitori nella crescita dei giovani sportivi.
Su questo ultimo punto, Rulli sta portando avanti un progetto chiamato “Parent’s school”, che vuole cercare di migliorare il ruolo dei genitori nella crescita sportiva e umana dei propri figli. “Molto spesso si sente dire che ‘il giocatore perfetto è orfano’ svilendo e svuotando di senso il ruolo del genitore arrivando addirittura a proibire di guardare gli allenamenti. Questa dinamica di esclusione però non risolve il problema, anzi lo amplifica.”
Secondo l’esperta, infatti, allontanare i genitori “fa si che questi cercheranno di entrare con nuovo slancio e molta insistenza nell’esperienza sportiva del figlio, favorendo quindi un massacro psicologico dei ragazzi e certamente non il loro benessere.”
Ciò che serve e che lei propone è la possibilità di creare uno spazio di confronto veicolato e gestito da uno psicologo dello sport incaricato dalla società per portare i genitori ad una presa di consapevolezza su quelli che sono le conseguenze dei propri atteggiamenti verso i figli: “bisogna che i genitori inizino a chiedersi e a trovare risposte a domande come “se faccio o dico questo che impatto avrò su mio figlio e il suo equilibrio? Questo porterebbe quindi ad un effetto a cascata sul benessere di tutte le persone coinvolte e trasformerebbe i genitori da figure da limitare a vere e proprie risorse propositive per gli atleti e le società sportive stesse.”
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Fonte: BuoneNotizie