Jessica Mariana Masucci presenta Il fronte psichico
a cura di Marco Marino
Ci sono libri che si impongono con urgenze tra le nostre letture. Sono libri che ci permettono di contare la realtà, di dare dei nomi alle cose che non hanno ancora nome, di definire degli spazi che sono ancora inesplorati. Uno di questi libri è sicuramente Il fronte psichico. Inchiesta sulla salute mentale degli italiani di Jessica Mariana Masucci e questa che segue è una conversazione su alcuni dei temi del libro.
Il suo saggio comincia evocando una figura della psichiatria italiana, Franco Basaglia, promotore della legge che chiuse i manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio. Scrive che «non siamo stati all’altezza che egli ha ispirato». Perché?
Ce lo dimostrano due dati. Il primo è la presenza di tantissime associazioni formate da pazienti e familiari di pazienti, che hanno bisogno di confrontarsi con le istituzioni, di chiedere loro aiuto, che desiderano un livello adeguato di qualità delle cure. Il secondo dato ci viene fornito dall’attuale distanza – da colmare in qualche modo? – tra i quasi 800 mila pazienti psichiatrici italiani e il resto della popolazione. Più affrontiamo il tema del disagio psichico nel nostro Paese, più ci accorgiamo di come questa distanza, in realtà, sia davvero molto sottile, quasi inesistente. Anzi, che siano due poli drammaticamente coincidenti.
Tra le pagine del Fronte psichico leggiamo i numeri del Rapporto sulla Salute mentale, di cui accennavi prima i numeri: gli utenti psichiatrici assistiti nel 2021 sono stati 778.737; in 27.813 vivono in strutture residenziali; e potremmo continuare con le percentuali sui ricoveri, sulle età degli assistiti (nel 67,3% hanno più di 45 anni). Ecco, questi numeri ritratto danno degli italiani?
Ne danno un ritratto parziale. Perché registrano soltanto quelle persone che sono state «intercettate» dai nostri servizi sanitari. Ma quante sono, invece, le persone – vittime ancora di preconcetti e tabù – che non intraprendono dei percorsi terapeutici o vengono tenute lontane dai loro familiari. D’altronde, sottolineiamolo, quando parliamo di «pazienti psichiatrici», il sistema sanitario nazionale ha in carico soprattutto persone con disturbi di grave entità. Sembra quasi un passaggio naturale: chiudono i manicomi, arrivano i nuovi servizi di salute mentale, che negli anni si sono strutturati, e le persone che prima venivano chiuse nei manicomi, adesso hanno bisogno di quei servizi. Servizi che negli ultimi dieci anni hanno una capacità limitata di risorse, soprattutto umane, ma anche economiche. Quando ti trovi in un’emergenza, e stiamo parlando dell’Italia tutta, prendi prima le persone più gravi. Per questo, escludendo un numero davvero elevato di casi silenziosi, la risposta alla domanda non potrà che essere parziale fino a quando nel sistema sanitario nazionale, e nelle nostre coscienze, qualcosa non muterà radicalmente.
La politica come interviene?
Se proviamo a vedere, negli anni precedenti alla pandemia per Covid, quanto la politica parlava di salute mentale, il risultato sarà quasi inesistente. Solo in questi ultimi tempi il tema ha riscosso una certa rilevanza – sebbene non sia ancora tra i principali punti di alcuna agenda politica nostrana. Come si può immaginare, è stato trattato segnatamente come problema economico, una mera questione di risorse: per carità, è un aspetto importante, che esiste e urge affrontarlo, ma servirebbe una riflessione più ampia, che non faccia passare il tema della salute mentale come l’ennesima tendenza elettorale da usare come bandiera, che non si cura a suon di bonus. È un rischio che dobbiamo evitare.
A questo interesse, come contraltare, è terribile leggere delle regioni che investono sempre di meno.
Ad esempio, tra le prime ragioni a istituire lo psicologo di base c’è stata la Campania. Io sono campana. Bisogna dire, però, che la Campania è una delle regioni che investe di meno nei servizi per la salute mentale. E noi diremo: sempre meglio di niente; eppure, avere un cronico sottofinanziamento dei servizi, non resta affatto un buon segnale. Teoricamente, se l’Italia volesse seguire le indicazioni che hanno dato gli esperti della rivista scientifica The Lancet, per gli stati ad alto reddito sarebbe necessario di investire il 10% del proprio budget sanitario in salute mentale. In Italia oggi ci troviamo intorno a percentuali del 3%.
Una domanda che forse riterrà stupida. Sembra quasi che il problema della salute mentale, negli ultimi, si sia aggravato. È possibile stabilirlo in qualche modo o è solo un problema di percezione?
Impossibile dire se sia aggravato o diminuito. Di certo se ne parla di più, a diversi livelli e in diversi modi. La pandemia ha catalizzato un movimento che era già in atto da prima; negli Stati Uniti il tema è largamente dibattuto sui giornali e sui social. Sicuramente iniziamo a vedere dei segni di apertura. Probabilmente sono da riconoscere ai più giovani, che hanno meno ritrosie riguardo a questi argomenti.
Leggo da una pagina sconcertante: «su 49 milioni di confezioni di psicofarmaci consumate in Italia in un anno, 36,5 milioni sono antidepressivi, e di questi solo 565.000 arrivano al paziente da ospedali o servizi di salute mentale Il resto sono tutte pillole acquistate in farmacia su prescrizione medica, e spesso a firmarle non sono gli psichiatri, come sarebbe logico, ma i medici di base o altri specialisti. Uno dei problemi principali che riguardano l’utilizzo degli psicofarmaci in Italia è proprio l’inappropriatezza prescrittiva.». Dapprima sconcerta il numero; subito dopo, la sua riflessione sull’inappropriatezza prescrittiva. Ancora una volta l’unica domanda è: perché?
Basterebbe guardare le fasce d’età dei consumatori di psicofarmaci per notare come sia ancora un problema di stigma sociale. Per una persona non giovanissima è più facile rivolgersi al medico di base per farsi prescrivere un antidepressivo, piuttosto che affrontare una terapia con uno psicoterapeuta o andare da uno psichiatra.
Jessica, vorrei restare sul campo delle cure e interrogarla su quella che è una nuova frontiera, ovvero la cyberpsicologia. Ma cos’è?
Si occupa, da una parte, degli effetti delle tecnologie sulla nostra salute mentale; e poi, cerca di studiare come le tecnologie possano essere utili a fini terapeutici. A Milano, ad esempio, stanno provando la realtà virtuale per i disturbi dell’alimentazione, la percezione del proprio corpo. È un tema molto interessante. Il grande scoglio quale sarà? La disponibilità delle risorse nel sistema sanitario nazionale. Perché una volta garantita la loro disponibilità universale, queste cure tecnologiche alternative potranno davvero essere preziose e alla portata di tante persone. Ma se il sistema sanitario nazionale non le rimborserà in qualche modo, non le metterà a disposizione, c’è il rischio che rimangano appannaggio di una élite.
A questo proposito, mi piacerebbe interrogarla – come ultimo argomento – anche sui rapporti tra lavoro e salute mentale. In particolare, sulle misure che le aziende stanno cominciando a prendere per tutelare la salute mentale dei loro dipendenti.
Siamo di fronte a una questione piramidale. Se osserviamo la punta della piramide, ci sono una serie di realtà lavorative, in cui – oltre all’utilizzo dello smartworking, e altre piccole accortezze per i lavoratori – hanno iniziato a offrire come benefit sedute di psicoterapia o di coaching. E quindi si è palesato un mercato, che esisteva anche prima della pandemia, a cui fare domanda. Il problema resta quello ricorrente nella nostra conversazione: quello di cui parliamo è il vertice. Quando guardiamo al resto della piramide, quello di cui ti accorgi è che non c’è alcun tipo di attenzione per la salute mentale. Non c’è per la sicurezza fisica, figuriamoci per quella psichica.
Secondo lei, l’uso di questi «benefit» migliorerà la vita delle persone?
Non credo che questi benefit siano le risposte che, prese singolarmente, risolvano il problema. Se resta tutto incastonato nella formula: ecco, ti do i soldi del bonus psicologo; oppure, ecco ti do un pacchetto di cinque incontri gratis dallo psicoterapeuta, così ti risolvi i problemi che hai e poi ritorni a lavorare negli stessi contesti che hanno generato lo stress o il disagio psicologico… non mi pare siano la risposta migliore. Ma per provare a cambiare sul serio, avremmo bisogno di ripensare il nostro modo di intendere i rapporti tra la persona e il lavoro.
Fonte: Minima et moralia