l’immagine di copertina è un’opera di Martin Whatson
Senza il coinvolgimento e la attiva partecipazione dei cittadini alla realizzazione di un servizio sanitario pubblico e universalistico all’altezza dei suoi compiti, le giustificate speranze e aspettative sul PNRR, Piano Nazionale Ripresa e Resilienza, rischiano di essere gravemente deluse: non solo per il temibile intervento dei corrotti, se non della criminalità organizzata, ma anche per la possibilità di investimenti delle risorse disponibili su modelli sanitari inadeguati perché di arretrata concezione o perché studiati a tavolino senza un serio riscontro con la pratica quotidiana.
Speranze e aspettative devono essere perciò fondate, sia nella fase progettuale sia nella fase attuativa del Piano, su un serrato confronto, sul campo, dei tecnici con le esperienze dei cittadini-utenti e di quanti operano a tempo pieno nella sanità. Per riportare il sistema ad un grado appena soddisfacente di efficienza non basterà infatti semplicemente tappare, magari soltanto in parte, quanche buco delle piante organiche conseguente a venti anni di blocco del turn-over del personale e riparare ad alcune più gravi carenze dei presidi strutturali e tecnologici, ma occorrerà anche, e soprattutto, operare una profonda trasformazione funzionale e organizzativa del sistema e superare la ancora prevalente concezione dell’istituzione come espressione del potere che amministra e paternalisticamente dispone sui servizi ai cittadini. Soltanto operando una tale profonda frasformaziome sarà possibile restituire alla istituzione il ruolo che le compete di fedele rappresentante, esecutrice ed interprete dei bisogni delle persone considerate nella loro complessa realtà esistenziale.
Il testo “Missione 6” del PNRR, che riguarda la salute, redatto in uno stretto gergo tecnico-burocratico non sempre pienamente accessibile ai non addetti ai lavori, se, da una parte, ci fornisce una dettagliata destinazione del numero dei miliardi di Euro a disposizione nella impostazione generale delle strutture territoriali e ospedaliere, dall’altra non va al di là di un esame, certamente di fondamentale importanza pratica, ma non privo di rischi di stravolgimento burocratico del sistema, dell’applicazione nel sistema delle tecnologie più avanzate, di elevate competenze digitali, professionali, manageriali, ecc..
E’ curioso, in particolare, che questo testo non contenga in nessuna sua parte le espressioni “salute mentale” o “sofferennza mentale” né, tanto meno, un accenno agli interventi ritenuti necessari per mettere in grado gli attuali servizi di salute mentale di confrontarsi più efficacemente con la drammatica realtà dei disturbi psico-affettivi nella gestione della salute della collettività. Nella descrizione della “Casa di comunità” (PNRR, M6C1, Investimento 1.1, p. 228,) si precisa, semplicemente, che “potranno essere ospitati servizi sociali e assistenziali rivolti prioritariamente alle persone anziani e fragili, variamente organizzati a seconda delle caratteristiche della comunità specifica ”.
Non c’è dubbio, però, che la vasta tematica che riguarda la tutela della salute mentale nella società dei consumi dovrà trovare una adeguata rappresentazione nei progetti e nella attuazione di qualsiasi riforma o innovazione introdotta nel SSN, Servizio Sanitario Nazionale. Non si tratta infatti di ripristinare o “rinforzare” un sistema che ha acquisito ormai preoccupanti caratteristiche neomanicomiali, ma di riprendere un cammino iniziato negli ultimi decenni del secolo scorso con la chiusura dei manicomi, il potenziamento dei CSM nel territorio, la istituzione dei DSM e, nel loro ambito, dei Centri diurni elettivamente dedicati a progetti compartecipati di inclusione sociale e lavorativa dei pazienti. La aziendalizzazione delle ASL, una devastante politica di riduzione delle risorse assegnate dallo Stato al SSN nella prospettiva di una economia fondata sul PIL e su una malintesa “crescita” ed una sostanziale delega al privato hanno interrotto negli ultimi venti anni quel cammino, hanno, di fatto, trasformato molti CSM in meri dispensari di psicofarmaci ed hanno favorito la cronicizzazione e l’internamento in strutture cosiddette “residenziali”, per lo più private, di un grande numero di giovani con sofferenza mentale che invece avrebbero potuto essere reinseriti con successo, attraverso percorsi di inclusione compartecipati, nella società e nel mondo del lavoro.
La rivalutazione dei contesti sociali, soprattutto famigliari, e delle loro elevate potenzialità inclusive nelle circostanze della vita quotidiana, dimostrate da una ormai vasta sperimentazione sul campo, soprattutto nelle esperienze dei Centri diurni, e una più congrua applicazione di normative recenti, come quelle della co-progettazione, ancora piuttosto ostiche all’apparato burocratico-amministrativo, che consentono di realizzare una sinergia di azione e di risorse umane, economiche e patrimoniali fra tutti i soggetti, pubblici, privati e del privato sociale coinvolti nel progetto potrebbero segnare una svolta decisiva ai fini di una più efficace tutela della salute mentale. Tutto ciò non potrà essere fatto senza la riconosciuta e costante rappresentazione nella costruzione di ogni nuovo assetto sanitario dell’esperienza dei cittadini utenti e di quanti operano a tempo pieno nella sanità. Soltanto una tale presenza nella Cabina di regia e nel Sistema di monitoraggio per il PNRR potrà consentire di calare nella complessa articolazione classificatoria del PNRR e nelle relative normative i bisogni globali delle persone ai fini di un intervento unitario e agile al tempo stesso.
L’impegno a ricostruire un tessuto collaborativo fra tutte le componenti coinvolte nella presa in carico delle persone con sofferenza mentale, è pertanto, in questo particolare momento storico, compito prioritario e inderogabile dell’associazionismo organizzato ai fini della introduzione di prassi innovative e del superamento, operando all’interno del sistema, della prevalente delega all’ istituzione della presa in carico delle persone con sofferenza mentale.
19/01/2022