Il cosiddetto Bonus Psicologi non entrerà nel PNRR come auspicato da chi l’aveva promosso e inseguito. Una buona notizia per alcuni, un’occasione mancata sostengono altri. Dichiaro subito di essere tra i primi, ma vediamo di cosa si tratta.
L’emergenza Covid costituisce una fantastica occasione per tanti, non ultimi gli psicologi cioè coloro che praticano la cura psicologica (che non è “la psicologia” e basta). A dire il vero una legge del 1989 aveva regolamentato la pratica della psicoterapia e previsto che un laureato in Psicologia non fosse abilitato all’esercizio della professione se non dopo aver conseguito un diploma di specializzazione quadriennale. Tacerò sul fatto che ai medici che praticano la psicoterapia non è richiesta alcuna formazione specifica perché, se psichiatri, per grazia corporativa, sarebbero psicoterapeuti. Ma tant’è… Il Bonus, come era stato concepito, non prevedeva alcuna distinzione tra psicologi generici o psicoterapeuti specializzati che diventano pari. Tanto si può sempre imparare qualcosa con corsi brevi la cui offerta è diventata sterminata negli ultimi mesi.
Le emergenze, si diceva, sono grandi occasioni per costruire un futuro non emergenziale: il provvedimento, se approvato, avrebbe consentito a una moltitudine di laureati di lavorare in campo psicologico. Quale migliore circostanza di una pandemia virale pubblicizzata come pandemia anche psichiatrica, con supposti aumenti vertiginosi di diagnosi di depressione, ansia, panico, tentativi di suicidio. Forse che non servirebbe qualcuno in grado di ascoltare, evitare troppi farmaci, aiutare ad elaborare i complessi vissuti, individuali e collettivi con cui tutti siamo tuttora confrontati? Certo: l’introduzione del Bonus avrebbe permesso l’accesso a ipotetiche cure per tutti coloro che ne sentano il bisogno: coppie litigiose o violente, single ansiosi, anziani, vecchi e non dimentichiamo anche i bambini, costretti a DAD e altre vessazioni varie che potrebbero trarne qualche beneficio.
Se a scadenza e il professionista non è professionalmente addestrato, una buona parola e un consiglio ben dato saranno pur sempre meglio di niente! Poi chi avesse voluto e potuto avrebbe proseguito da solo, accollandosi le spesa. Questo scenario, per ora sventato, non contempla uno Stato premuroso che prende a cuore la psiche dei suoi cittadini ma propone un presidio provvisorio per comportamenti anomali e apre un mercato per l’eccesso di laureati sottoccupati o francamente disoccupati che la nostra università ha licenziato negli anni a ritmi forsennati. Uno Stato che dice di occuparsi della salute attraverso l’accesso alle cure psicologiche ma, di fatto, ne impoverisce e svaluta il senso e autorizza una liberalizzazione della pratica e della professione.
Qualcuno forse ancora ricorda che un tempo non tanto lontano, invece, una rete di centri di salute mentale diffusa nel paese esisteva e molti psicoterapeuti vi lavoravano tutti i giorni offrendo risposte a domande emergenti o aiutando le persone a comprendere meglio cosa stavano chiedendo e di cosa avevano bisogno. Esisteva anche la psicologia scolastica che consentiva un accesso al mondo complesso dell’infanzia quando la complessità era troppa. C’erano persino i consultori familiari territoriali dove psicologi formati potevano aiutare mamme e padri in difficoltà. E questo perché qualcuno, da legislatore, aveva pensato in termini di comunità, di società e non di mercato. Ma, si sa, il tempo passa.
Un’alternativa, tuttavia, sarebbe possibile. In piena pandemia ci si è resi conto che non sono da moltiplicare le diagnosi psichiatriche ma le occasioni di ascolto, confronto ed elaborazione. A scuola, per esempio, di fronte alle mille confusioni, sarebbe possibile dare parole all’inquietudine e allo smarrimento, anche online se il caso. Certo servirebbe che si sappia abbastanza di bambini, di adolescenti e di dinamiche di gruppo e che si faccia un buon lavoro sia con gli scolari che con i loro insegnanti, gente che sappia di psicologia di comunità e non di catastrofi. E poi ci sono gli anziani e i vecchi in RSA, spaventati e soli: ma anche qui avremmo la possibilità di avvalerci di personale per gestire gli stati di maggior sofferenza, innanzitutto socializzandoli e non trattando solo i singoli individui.
E ci sarebbero tempo e orecchie addestrate per i lutti delle famiglie che hanno perso i loro cari. Anche i cosiddetti operatori, non esenti da prove psicologiche estreme, come i medici e gli infermieri che lavorano e vivono ogni giorno a contatto con la morte da COVID avrebbero bravi psicologi assunti dagli ospedali o dalle RSA che si incarichino di disintossicare il personale dall’esposizione prolungata con la morte, contagiosa quanto un virus ma dagli effetti ancora più insidiosi. Persino sui media qualcuno userebbe le competenze di seri professionisti della psicologia della comunicazione in grado di contenere le più appariscenti derive di una stampa o di una TV sensazionalista.
Per non parlare del patrimonio di servizi pubblici territoriali, che verrebbero finalmente ripopolati con professionisti competenti, supervisionati, che lavorano in gruppo e pensano in termini di comunità. Un grande piano non corporativo di psicologia sociale per una società in affanno che farebbe lavorare legioni di giovani psicoterapeuti. C’è qualcuno, infatti, che pensa che una democrazia avanzata non necessita solo di equità e giustizia sociale ma anche di una decente alfabetizzazione dell’anima (si, dell’anima e non del cervello). Ci vorrebbe qualcuno che abbia a cuore la psicologia come disciplina della salute, della riparazione e della relazione, umana e professionale. E politici che ritengano che bambini, adolescenti e adulti un poco più consapevoli saranno e sono anche migliori cittadini.
Insomma, se il Bonus appena bocciato rischia di tornare prima o poi in qualche altra versione, un’alternativa meno avvilente per la psicologia, la psicoterapia e gli psicologi sarebbe possibile.
Quale scenario preferite? Per quale opzione sareste disposti a battervi?