di Massimiliano Aragona – Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà (INMP)
La fragilità sociale, intesa come disuguaglianze socioeconomiche in generale, ma anche come fragilità specifiche, è legata a doppio filo con le problematiche di salute mentale. Ovvero, le difficili condizioni sociali ed economiche aumentano la sofferenza convogliata su codici che i clinici leggono come patologia mentale, e di converso la patologia mentale porta a maggior rischio di ritiro sociale, perdita del lavoro, etc., con conseguente rischio di marginalizzazione che a sua volta, in un circolo vizioso, peggiora ulteriormente le cose. Per questo l’organizzazione dei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) italiani è stata pensata già dall’origine con un’impronta fortemente sociale, nel senso di un radicamento forte nel tessuto sociale (il concetto di territorialità), una preferenza netta per gli interventi di prossimità rispetto a quelli ospedalieri (lasciati volutamente come intervento emergenziale che subentra solo in caso di problemi nei progetti territoriali), e soprattutto con una spinta a promuovere attività pro-sociali e di facilitazione all’inserimento lavorativo.
Purtroppo nel tempo questa spinta è venuta meno in molte (ma non tutte) realtà italiane, con un progressivo “ritiro” degli operatori della salute mentale (via via ridotti di numero e con risorse decrescenti) dalle attività propositive nel territorio. Ciò ha comportato un aumento delle difficoltà di accesso ai servizi territoriali, che in alcune realtà sono preclusi a chi non ha la residenza, a chi non ha una delle gravi patologie previste nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), a chi non riesce a fare valere con la sufficiente forza i propri diritti, a chi non può attendere i non sempre brevissimi tempi di attesa per una prima visita. Al contempo, le attività riabilitative, di formazione lavorativa e di inserimento attivo sono state progressivamente ridotte man mano che i budget aziendali venivano decurtati.
Su tutto ciò è piombata l’emergenza pandemica, con effetti negativi generali (es. perdita di lavoro, soprattutto per chi già aveva un lavoro precario) e specifici (blocco delle attività gruppali e riabilitative, aumento delle difficoltà di accesso ai servizi territoriali con conseguente rischio di maggior ricorso ai servizi di urgenza/emergenza).
Un discorso a parte va fatto per la salute mentale dei migranti, la quale, oltre a quanto già detto, presenta rischi ulteriori per: 1) barriere culturali/linguistiche; 2) stress intrinseco alla migrazione; 3) barriere d’accesso ai servizi ancora più forti (spesso i migranti non hanno la possibilità di affittare una casa con regolare contratto, e quindi non hanno la residenza); 4) scarsa capacità degli operatori nel cogliere le determinanti culturali sottese ad alcune forme di sofferenza mentale dei migranti; 5) maggior prevalenza di storie psicotraumatiche (soprattutto nei richiedenti asilo); 6) scarso supporto sociosanitario per le cronicità; 7) peggioramento, negli ultimi anni, delle capacità di accoglienza del sistema, e contemporaneamente maggiore espulsività dai centri di accoglienza con conseguente aumento del numero delle persone finite a vivere in strada; 8) tassi di incarcerazione ancora più alti rispetto alla popolazione autoctona, usualmente per la maggior difficoltà ad accedere, a parità di reato, alle misure di pena alternative al carcere.
Stando così le cose, si possono avanzare alcune proposte di miglioramento.
Sul piano della prevenzione, la auspicata ripresa economica va accompagnata da politiche di ridistribuzione del reddito che permettano di mitigare l’aumento delle disuguaglianze sociali a cui si è assistito negli ultimi anni. Nel contempo va attivamente contrastato il lavoro nero e precario e promossa la regolarizzazione e stabilizzazione dei lavoratori, sia italiani che nati all’estero.
Per i migranti, poi, occorre promuovere attivamente l’arrivo legale e in sicurezza (ad es. con i corridoi umanitari e la riattivazione dei flussi per i migranti economici), migliorare le condizioni di accoglienza nei centri (che devono avere un rapporto utente/operatore sufficiente a poter cogliere i bisogni di salute sul nascere, e non solo quando la situazione è ormai emergenziale), garantire tempi certi e ragionevoli per ottenere il permesso di soggiorno, favorire l’empowerment con l’avvio precoce al lavoro.
Nell’organizzazione dei servizi bisogna ridurre la soglia d’accesso a quelli territoriali (che dovrebbero accogliere chiunque in atto stia vivendo sul territorio di competenza, indipendentemente da domicilio o residenza). Ciò per consentire trattamenti precoci prevenendo i ricoveri d’urgenza. Per chi ha subito violenza intenzionale bisogna organizzare in ogni Dipartimento della Salute Mentale (DSM) almeno una equipe dedicata, secondo quanto previsto dalle linee guida del Ministero della Salute.
Infine, bisogna aumentare la formazione degli operatori al lavoro transculturale e implementare la disponibilità di mediatori culturali nei setting di salute mentale.
Sul piano della prevenzione, la auspicata ripresa economica va accompagnata da politiche di ridistribuzione del reddito che permettano di mitigare l’aumento delle disuguaglianze sociali a cui si è assistito negli ultimi anni.
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