Sarà posata mercoledì 14 luglio alle 9,30, in piazza Umbria, sulla panchina dove lui amava trascorrere il tempo. Ne abbiamo parlato con la sorella Maria Cristina
Una targa per ricordare Andrea Soldi, 45enne morto per ipossia durante un Tso. Sarà posata mercoledì 14 luglio alle 9,30, in piazza Umbria, a Torino, proprio sulla panchina dove lui, affetto da schizofrenia, amava trascorrere il suo tempo, dove trovava rifugio nei momenti di dolore profondo e dove si sentiva sicuro e tranquillo.
Era seduto su quella panchina quando, il 5 agosto 2015, il suo psichiatra e tre vigili urbani si avvicinarono per farlo salire sull’ambulanza. Ma qualcosa andò storto: Andrea, che rifiutava il trattamento forzato, venne immobilizzato dal personale.
Una stretta letale. Perse i sensi, si accasciò a terra e, in quella posizione, prono, venne ammanettato e caricato sull’ambulanza. A pancia in giù, non riuscì più a respirare e non riprese conoscenza.
In questi anni, la sorella Maria Cristina – insieme al papà Renato – non ha mai smesso di cercare la verità. Sente di averla trovata, ora che la Corte d’Appello ha condannato a un anno e sei mesi di reclusione lo psichiatra e i tre agenti della polizia municipale accusati di omicidio colposo per la morte del fratello. E questa targa, per lei, è la dimostrazione che anche il Comune ha preso coscienza di quello che è accaduto.
Signora Soldi, che cosa significa, per lei, questo riconoscimento?
«È un monito a far sì che quello che è successo ad Andrea non accada mai più: è anche quello che è scritto sulla targa. Non deve più succedere che i Tso vengano eseguiti in maniera così feroce: il personale deve essere preparato, e non solo a utilizzare le arti marziali. Certo che devono esserci le forze dell’ordine, ma devono rimanere a distanza. Questa targa, inoltre, serve anche a dare voce alle famiglie e ai malati mentali».
Che non ne hanno abbastanza.
«Come famiglia, siamo stati abbandonati e ci sentivamo soli. I malati mentali sono considerati di serie b, se non peggio, invece dovrebbe essere dato loro lo spazio necessario. I centri dovrebbero essere aperti sempre, perché i malati abbiano un posto adeguato e accogliente dove andare».
Ad Andrea non è successo?
«Nei centri diurni lo facevano giocare con il pongo. Lui era intelligente e sensibile: quella non era una proposta appropriata. È vero che erano gli anni 90, e forse adesso qualcosa è cambiato, ma sento ancora tante famiglie che lamentano il fatto di dover gestire loro i malati, con supporti non adeguati e senza formazione. Se solo qualcuno mi avesse spiegato come relazionarmi ad Andrea durante le sue crisi, non l’avrei abbracciato, come tentavo sempre di fare in quei momenti. Sarei dovuta rimanere lontana e aspettare: la crisi sarebbe durata meno. Ma non lo sapevo: nessuno ci spiegava come comportarci».
Di che cosa avrebbe avuto bisogno Andrea, quando era malato?
«Di un lavoro, ad esempio. Per molto tempo, mio fratello ha svolto un’attività lavorativa perché mio padre era il titolare di una ditta, poi però papà è andato in pensione. Andrea aveva una manualità sorprendente: sarebbe stato bello inserirlo in un ambiente adatto a valorizzare i suoi talenti».
Lei dice spesso che suo fratello, durante il Tso, è stato «arrestato», non preso in carico.
«Sì: il giorno del Tso è stato contenuto, afferrato per il collo e strozzato fino a quando ha perso coscienza, buttato a faccia in giù, ammanettato e trasportato così in ospedale. Non una presa in carico, ma una tortura. E non solo ad opera dei tre agenti della polizia: lo psichiatra che era presente era il suo medico, e avrebbe dovuto conoscerlo bene, avere una relazione di fiducia con lui. Quel giorno Andrea non era disposto ad andare in ospedale: dovevano lasciarlo lì. Non era pericoloso né per se stesso – non aveva mai pensato di uccidersi, neppure nei momenti più duri – né per gli altri: non era mai stato violento con nessuno».
Sente di avere avuto giustizia?
«Ci sono stati due gradi di giudizio. Il magistrato Raffaele Guariniello aprì le indagini in modo tempestivo. Quando è andato in pensione, al suo posto è arrivata Lisa Bergamasco, a cui riconosco una grande passione, tanta onestà e una decisa voglia di verità. Del caso di Andrea si è occupato il giudice Federica Florio: ho sempre sentito di essere in buone mani con tutti loro. Certo, un anno e sei mesi sono niente per chi ha tolto la vita a un uomo, e i responsabili della morte di mio fratello non passeranno un solo giorno in carcere. Ma sono stati condannati per omicidio colposo: è stato accertato che Andrea, quel giorno, è stato torturato e ucciso».
Perché la targa verrà posizionata sulla panchina di piazza Umbria e non, ad esempio, in un ospedale?
«Anche l’ospedale poteva essere un buon posto, ma la panchina è più accessibile a tutti: ai bambini, agli adulti, agli addetti ai lavori, ai medici e anche agli indifferenti, che sono quelli a cui vogliamo arrivare. La targa deve essere visibile e spingere le persone a interrogarsi sulla malattia mentale. Chi ha paura quando vede un malato mentale è perché non sa nulla di queste patologie. Bisogna parlare di tutte le fragilità e delle differenze: è l’unico modo per eliminare questo stigma. Io lo farò finché avrò voce».
Fonte: Vanity Fair