di Paolo F. Peloso
Quando nel 1998 incontrai Franco Rotelli a Trieste aveva pubblicato l’anno precedente una prima raccolta di scritti: “Per la normalità. Taccuino di uno psichiatra”. Ad essa ha fatto seguito nel 2015 L’istituzione inventata / Almanacco. Trieste 1971-2010, e se ne è detto sulla rubrica (vai al link).
Allora si accingeva a diventare, e poco dopo divenne, direttore generale dell’ASL triestina per passare poi alla politica regionale; aveva diretto il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste dal passaggio a Roma di Franco Basaglia dopo aver lavorato vent’anni con lui, e prima all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere.
Questo nuovo volume, curato da Agnese Baini, raccoglie 22 scritti – alcuni li ho ritrovati, alcuni li ho scoperti – che coprono un periodo dal 1981 al 2018, con uno precedente del 1967. Lo stile è quello caratteristico di Rotelli: elegante, denso, intenso, immaginifico, iperinclusivo, icastico a tratti come osserva Saraceno, spesso incline al vezzo di una torsione di quello che ci attenderemmo essere il “normale” ordine delle parole.
Non è autore prolifico, Rotelli; anzi, quasi schivo. Ma quelle poche parole che scrive sono parole importanti, e sempre parole che hanno strettamente a che fare con le cose. Con la sostanza e non con la forma. Si può essere o meno d’accordo di volta in volta con Rotelli; ma mi pare innegabile che le questioni che pone sono importanti.
Scrive Benedetto Saraceno nella postfazione al volume che «ci sarebbe molto da dire sull’importanza di ciascuno dei saggi di questo libro e la tentazione sarebbe quella di percorrerli tutti e da ognuno trarre ispirazione e stimolo» (p. 196). Ed è una tentazione alla quale io vorrei cedere, certo non seguendo l’ordine cronologico, ma piluccando, raccogliendo, rielaborando e facendo mio, sperando di non stravolgerne il significato.
Parto dall’ultimo saggio della raccolta ma primo nella datazione, dedicato a una critica del concetto di normalità e patologia della personalità in Kurt Schneider. E parto da lì perché un passaggio mi ha colpito e mi pare che possa essere la luce che illumina il senso degli altri testi (e del lavoro) di Rotelli. È quello nel quale, per affrontare il problema della definizione della norma, si contrappone alla norma definita in riferimento a un ideale quella fondata sul valore, la quale «pone l’uomo reale in un mondo reale, in un mondo di valori nel quale vive, secondo i quali può essere riconosciuto nel suo rapportarsi a essi, nel suo realizzarsi quindi come persona» (p. 187).
È questo – Rotelli ribadisce nel 1983 e ha ragione – il “tribunale del mondo della vita” con il quale la fenomenologia di Husserl ha insegnato a Basaglia a confrontarsi (p. 22). Ed è anche questo il filo rosso che mi pare di individuare: che si parli del manicomio o delle nuove pratiche di salute mentale, del privato o del pubblico, della pena o della misura di sicurezza c’è un tema che ritorna: diffidare sempre di ciò che è enunciato in modo generale, astratto, di quello che è stabilito guardando le cose da lontano e può sembrare perfetto; e riportare sempre le questioni al vivo dell’incontro, dello scambio tra persone reali.
E così oltre cinquant’anni dopo quel primo saggio la risposta alla domanda “quale psichiatria?” non è cercata da Rotelli né nelle “utopie, ideologie, buone intenzioni, cattive azioni”, né nei “manuali letti e messi da parte”. Ma invece nelle modalità concrete con le quali: «La smisurata ambizione esplicita nella parola stessa “psichiatria” scende a terra nelle pratiche triviali delle aule dei tribunali, in qualche angolo secondario di un ospedale, nella silente, ripetitiva prescrizione dei farmaci long acting, nella comparsa televisiva di qualche pensoso medico dell’anima. Vasto e spesso ricco il mercato delle residenze “riabilitative”, a pluriennale, a volte pluridecennale convivenza a lucro altrui. Sempre incontenibile la prassi di rnolti psichiatri di contenere al letto le persone» (p. 11). Sono queste le sfide con le quali siamo quotidianamente chiamati, noi che “facciamo” la psichiatria (ma non solo noi), a misurarci a partire anche dalle buone pratiche delle quali siamo, chi più chi meno, spesso capaci.
La risposta alla domanda “quale psichiatria?” è allora ancora da cercare nel manicomio – e ne sono profondamente convinto anch’io – che non possiamo lasciarci alle spalle: «non come chi ricordi all’operaio affluente gli zoccoli del nonno, a mostrare i progressi compiuti. Piuttosto come chi ha colto in un momento dell’esperienza storica il disvelarsi allo stato puro della realtà dell’oppressione, la metafora che illumina di significato tutta quanta una fenomenologia complessa, difficile da cogliere nella familiarità dispersa delle manifestazioni» (p. 26). E anche per questo, sono preziose le pagine dove si racconta come l’odore di fumo e orina che impregna nel manicomio gli intonaci e le relazioni è ritrovato, portato al suo grado massimo di massificazione e deumanizzazione, a Leros, la spaventosa isola-manicomio per il cui superamento Rotelli ha lottato con determinazione.
La risposta è ancora da cercare – oggi fuori come ieri dentro le mura – nella deistituzionalizzazione come rottura delle identità fisse, stereotipate, date una volta per tutte, creazione di opportunità, di possibilità, di probabilità per il “paziente” (e non solo). Costruzione di una cura che sia: «occuparsi, qui e ora, di far sì che si trasformino i modi di vivere, sentendo la sofferenza del paziente, e che insieme si trasformi la sua vita concreta quotidiana» (p 46). Cura che tende a estendere la propria intermediazione oltre la psichiatria «al carcere, alle perizie, alle giuridiche tutele», e che costruisce e decostruisce le proprie istituzioni per la deistituzionalizzazione: «cooperative, luoghi sociali, effimere estasi, permanenti laboratori» (p. 51). E, ancora: «vivificazione delle morte regole degli istituti, loro implosone ed esplosione, riappropriazione emozionante delle ricchezze singolari ivi coartate e riammesse in un grande gioco di scambi collettivi» (p. 68). Rifiuto quindi di «mummificare l’oggetto della psichiatria spostando solo le forme e il modo della gestione, più che altro i luoghi, il look, ben poco d’altro», per incontrare «l’esistenza sofferente del paziente nel suo rapporto con il corpo sociale». Di fronte alla quale spesso appaiono misere «le istituzioni tradizionali […]. Quanto poco pertinenti, inadeguate, un metro per misurare un liquido, una lente per vedere le galassie, una scatola per contenere la corrente del fiurne» (p. 70).
L’idea di salute mentale che nasce dalla lotta all’istituzione più rigida, il manicomio, investe per Rotelli e il gruppo triestino il welfare nel suo insieme con l’idea di “impresa sociale”. È la seconda metà degli infausti anni ‘80 e comincia ad apparire anacronistica e desueta l’illusione che possa essere lo Stato – uno Stato per giunta che in Italia sono in pochi, spesso i meno ricchi, a finanziare – a provvedere per tutti. Impresa sociale allora è un’idea coraggiosa e ambiziosa, che confesso di aver guardato allora io stesso con qualche sospetto, volta a tenere insieme in una sorta di coraggioso ossimoro il dinamismo del modello di mercato e la tensione egualitaria implicita nell’idea di “pubblico”, cioè attinente a quella “Re-pubblica” nella quale la linfa della Resistenza e dell Costituzione sembrava definitivamente esaurita nelle clientele di partito. Rotelli la espone con Ota De Leonardis e Diana Mauri in un volume, L’impresa sociale appunto (Anabasi, 1994) e in altre occasioni, come quando in uno scritto dell’86 qui leggiamo: «Siamo sempre stati coscienti delle grandi potenzialità del privato sociale. Non crediamo invece alle presunte stimolazioni di una concorrenzialità tra pubblico e privato [il “modello lombardo” allora egemone]. Crediamo fermamente invece alla necessità di deistituzionalizzazione del pubblico, deistituzionalizzazione che non ha nulla a che fare con la deregulation cosi come nulla ha a che fare con la deospedalizzazione amministrativa. La questione é che occorre demolire la burocratizzazione, 1’inerzia, la compartimentazione, l’irresponsabilità del Welfare, non il welfare; vanno demoliti i controlli burocratici e partitici; vanno valorizzate responsabilità a tutti i livelli, libera iniziativa, produttività, singolarizzazione e professionalità. Più mercato nello Stato (molto più mercato) se questo significa produttivizzazione delle funzioni.
Questa è deistituzionalizzazione e insieme produzione di ricchezza, processo possibile di soggettivazione, welfare altro» (p. 53). Si tratta, insoma, di «riabilitare le istituzioni della riabilitazione» (pp. 74, 115) perché: «Abbiamo a lungo parlato di riabilitazione istituzionale e pensiamo quanto mai attuale il terrnine. O ci si riabilita (abilita) insieme (medici, infermieri, utenti, familiari, società civili) o di strada se ne fa ben poca e tecniche utili se ne trovano ancor meno, che non durino lo spazio di una mattina, di una rnoda, di un libro. Dalla continua capacità di modifiche delle istituzioni dipendono riscatto, accesso, dimensione pratico-affettiva dell’azione, occasioni di scambio, valorizzazione anche delle numerose vitalità dei soggetti» (p. 125).
Si tratta di ricordare poi da un lato che, come insegna Luc Ciompi: «l’elemento predittvo favorevole dell’intervento con pazienti gravi ha pochissimo a che fare con la diagnosi, mentre ha moltissimo a che fare con la combinazione di aspettative e di motivazioni allo star bene sia della persona sia del contesto, e degli operatori in particolare» (p. 122). E insieme che la riabilitazione non riguarda solo la persona, ma con lei, per quel che possiamo, appunto il contesto (lavorando sulla chiave e la serratura, ha scritto negli stessi anni Saraceno); e occorre quindi interpellare il mondo del lavoro nei suoi diversi soggetti e chiedere loro aiuto per un progetto che, oltre la psichiatria, riguarda la vita, e quindi riguarda tutti. Perché, insiste Rotelli: «per curare molte persone è meglio essere in molti e l’effetto moltiplicatore richiede strategie di moltiplicazione che si danno o con moltissimi denari per moltissimi professionisti o con l’attivazione di energie molto meno costose ma di un gran numero di persone (non professionali)» (p 98). Si tratta dunque di guardare con interesse, pur senza trascurane i limiti, già nel ’91 a modelli come quello francese del “reddito minimo d’inserimento” nati dal riconoscimento nell’inserimento sociale e professionale delle persone in difficoltà di un “imperativo nazionale”; il che trent’anni dopo il nostro reddito di cittadinanza ha tentato di fare, riuscendovi però solo per metà (distribuendo cioè risorse, ma rinunciando di fatto a inserire).
Si tratta di misurarsi, quotidianamente, con infiniti piccoli ostacoli che, per malafede o per inerzia, sembrano fatti apposta per far sì che chi è escluso resti escluso: «Infondo è sempre molto semplice bloccare i processi di trasformazione, c’é un’arma efficacissima che si chiama “burocrazia”. Non serve la repressione, non c’é bisogno della violenza o della forza per mettere fine alle cose; basta moltiplicare le regole, basta renderle pervasive e invasive, basta interpretarle nela loro versione stupida. Cosi fece – per esempio – il Partito comunista a Parma negli anni in cui Basaglia era direttore del manicomio. A un certo punto il partito non volle che il cambiamento andasse avanti, e come lo ostacolò? Cominciando a dire che i volontari che venivano dentro l’ospedale dovevano registrarsi, portare la carta d’identità, riempire un modulo, pagare i pranzi e le merende… Che non potevano più mangiare con i pazienti perché questo non era lecito, non era igienico e cosi via. Bastò insomma un po’ di burocrazia per irnpedire la nascita di una nuova cultura della cura» (p. 158). E quante volte ci è capitato di imbatterci negli stessi ostacoli quando abbiamo avuto qualche idea che pareva buona e originale, e tutto si è immediatamente complicato!
Si tratta di esserci tutto il giorno e 7 giorni su 7, perché, ancora Rotelli: «si diventa matti anche quando si fa festa, anzi lo si diventa ancora di più perché, come scrive Alda Merini del Natale, “chi è solo lo vorrebbe saltare quel giorno”» (p. 163).
Si tratta di immaginare – in un progetto politico e amministrativo coraggioso vicino alla realtà delle persone – rioni, paesi, che non siano meri agglomerati di persone sole, ma lavorino per essere piccole comunità, dove sia possibile fare “psichiatria di comunità” se vogliamo che nella comunità, e non nel deserto delle relazioni, la nostra psichiatria sia calata davvero: «A Trieste, l’Azienda sanitaria ha promosso esperienze di “microarea” per fare salute nei quartieri. In alcuni rioni della Città si é cercato di sperimentare fino in fondo la conoscenza dei problemi dei cittadini – i cittadini di quell’area – per rompere con le iniquità e con le disuguaglianze nell’accesso ai servizi. Non si é ancora riusciti a estendere il progetto a tutta la città, lo stiamo sperimentando su piccole aree mettendo insieme le risorse dei comuni, dell’’Azienda per i Servizi sanitari, dei distretti, dei cittadini, delle associazioni, del volontariato, delle famiglie, delle farmacie, dei medici di base, delle parrocchie, dei commercianti» (p. 168)
Per fare riabilitazione, insomma, bisognerebbe porsi molte questioni e Rotelli ne dà un elenco (pp. 126-127); presi nell’insieme paiono tutti indispensabili, ma danno la vertigine. Bisognerebe insomma rimboccarsi le maniche e invece il bilancio di Rotelli, per quanto riguarda la psichiatria della legge 180, è lucido ma amaro, come si evince da due scritti del 1993 e del 1995: «l’Italia si divide in tre: chi lavora per realizzare compiutamente i principi della legge; chi lavora per combatterla; chi (ed è la maggioranza “democratica”, pur aderendovi, la stravolge, la svuota di senso, di opere e fatti, la trasforma in vuoto feticcio – meglio i nemici della legge» (p. 126). Posto che saranno pochi credo quelli di noi che si sentono nel secondo gruppo, credo che per ciascuno possa essere interessante chiedersi quanto si senta nel primo, e quanto nel terzo.
Fin qui dunque della psichiatria. Ma la domanda “quale psichiatria?” pare avere per Rotelli un effetto domino e lo porta a cercare risposta a molte altre, che con essa hanno più o meno a che fare.
Intanto perché la sua storia professionale ha avuto inizio nell’ospedale psichiatrico giudiziario dove pure ricorda coraggiose e pioneristiche pratiche di deistituzionalizzazione alle quali ha posto mano all’inizio della carriera, continuando ostinatamente a perseguirle anche quando si trovava altrove fino a essere tra i protagonisti della sua chiusura. E ciò lo spinge ad affrontare i problemi, che tutti ci riguardano, del delitto e il castigo. E così nell’introdurre il convegno Liberarsi dalla necessità del carcere nel 1983 l’obiettivo è in primo luogo quello di un mutamento radicale del diritto, che scenda anch’esso, come si chiede alla psichiatria, dalla sua astrattezza e distanza per riscoprire il fondamento umano della pena nella relazione tra persone -l’autore e la vittima, diretta o indiretta – che ne sono i protagonisti reali. E in secondo luogo spostare la questione dell’espiazione dallo Stato, nel suo porsi metafisico e distante, alla comunità locale, tessuto di scambi e d’incontri umani dove può essere più facile trovare soluzioni concrete e su misura. Soluzioni che non nascano dalla semplicistica separazione fisica tra innocenza e colpa che è il muro del carcere, ma trovino il coraggio di riportare anche il delitto, anche il più efferato, alla complessità che è propria del cuore dell’uomo. All’inafferrabilità del soggetto nella sua verità profonda (e viene in mente Dostoëvskij).
Una complessità che è di ognuno e che ritroviamo nelle pagine dense di umanità che, nel ’93, Rotelli dedica a un evento triste nella sua grandezza, il suicidio del finanziere Raoul Gardini. Sono pagine che danno i brividi e ci ricordano come a volte davvero solo un soffio separi la gloria dell’essere invidiati sulle copertine dei rotocalchi come simbolo del più pieno successo, e l’abisso – la cui prospettiva può arrivare a impedire la vita – di finire per essere citato come caso clinico a esempio dei tratti narcisistici, e magari antisocociali, della personaltà in una lezione di psichiatria.
E che fanno pensare quanto l’irrigidirsi delle identità, il fatto di non tenere conto della complessità di ciascuna persona, può essere pericoloso.
Perché anche l’uomo colpevole, l’uomo tragico, ha diritto a un incontro autenticamente umano che faccia sì che, lo scrive Rotelli nell’88 in un passaggio pregno di umanità che mi sono trovato a ricordare più volte nel lavoro in carcere e a citare spesso nello scrivere di esso: «curvandosi su una tale vittima giunta così lontano nella sua umana esperienza, il medico e il magistrato si considerino come davanti ad un silenzio assoluto, a una totale assenza di opera, di cui avere però appunto “pietà” e allora moltiplicare le forze e le energie a insieme combattere per far sì che un simile momento, una simile assenza, non possano tornare ad essere mai più in quel soggetto» (p. 64).
Ma il discorso non si ferma a rispondere alle domande di quale psichiatria e quale giustizia. E uno scritto dell’87 sembra vedere già all’orizzonte la questione dei migranti, figlia di una disuguaglianza che va oltre i confini della nazione: «Mai come oggi l’essere uguali, bianchi, occidentali, sani, giovani e produttivi costruisce sugli altri il massimo della diseguaglianza. Mai come oggi realizzata, la rnaggioranza deviante, per sua diversità costretta ai margini. Si intravede la possibilità che tutto ciò possa essere travolto, superato per sempre; che cada soprattutto la finta uguaglianza che richiama una diversità soppressa invece che moltiplicata all’infinito e di infinito valore» (p. 56).
E sembra addirittura parlare dei nostri giorni, del modo nel quale anche questa pandemia sembra destinata a concludersi: «Quando un terremoto si produce, o qualsiasi catastrofe, dopo il primo memento di panico, dopo il vagare stuporoso o disperato, sorge 1’alba in cui tutti operano, cooperano, uguali, solidali, un sol uomo, il corpo sociale come anticorpo collettivo. Ciò dura, dicono gli studiosi, finché arrivano i “soccorsi”: l’esercito, i prefetti ecc. Gradualmente la cooperazione, l’eguaglianza finiscono, le istituzioni riprendono il controllo, ciascuno fa i propri conti. Tutti ritrovano il loro ruolo omologato dall’istituzione. Norme, contratto, diritti, ricostruiscono il cammino della separatezza e del diseguale» (p. 56).
La guerra nell’ex Jugoslavia è stata vissuta con particolare partecipazione a Trieste, città di confine e di incontri/scontri tra etnie e tra culture, e in uno scritto del ’94 Rotelli affronta questioni fondamentali a partire da quella dell’identità e a seguire con quella della relazione, sempre complessa e a rischio di sconfinamenti, della liceità e dell’utilità di applicare strumenti della psichiatria alla politica.
Mi pare che ce ne sia abbastanza, insomma, perché alla domanda “Quale psichiatria?” – e con essa Quale diritto? Quale accoglienza? Quale equità? Quale pace? – ci sentiamo spinti a cercare risposte concrete giorno per giorno nell’incontro reale tra persone reali. Ciascuna con la propria complessità, le sofferenze, le ricchezze, i desideri e le speranze
Ci sono ancora tanti muri da abbattere (materiali ma non solo), assumendoci ogni volta la responsabilità di ciò che quel crollo comporta (p. 158). Ci sono ancora molte rose da piantare nel roseto (p. 151), scrive Rotelli, e anche una sola può essere importante contro l’infinito rischio di inaridirsi e spegnersi del mondo.
Fonte: Psychiatryonline