di Maria Grazia Giannichedda
La coincidenza fra i 45 anni della “legge 180” del 13 maggio ’78 e l’uccisione, il 21 aprile scorso, della psichiatra Barbara Capovani da parte di Gianluca Seung, che era stato suo paziente nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) di Pisa, non può che farci guardare alla riforma partendo da quel fatto. Non per rievocarlo ma per cogliere la questione che pone e che è centrale nella legge di riforma e nella formazione della psichiatria occidentale moderna: il rapporto tra psichiatria e giustizia, e in particolare tra sofferenza mentale, capacità “di intendere e di volere” e pericolosità sociale. Questi temi si sono in gran parte persi nelle discussioni di questi giorni, segnate da toni di diffamazione della riforma, e degli operatori che la prendono sul serio, come non si sentivano più dagli anni ’80. Si capisce che questa destra al governo rafforzi le speranze di restaurazione, ideologica e giuridica, di quella psichiatria che ha sempre mal digerito la riforma e che vorrebbe spostare il discorso sulla “180”. Va ripresa invece la questione psichiatria e giustizia, perché solo da qui può passare un rilancio vero del sistema della salute mentale in Italia ormai ridotto in miseria, che certo ha bisogno di più soldi ma anche di riprendere a ragionare e fare ricerca sui propri strumenti, sui modelli organizzativi, sui fondamenti.
Sia chiaro: il dramma dei giorni scorsi interroga non una ma due istituzioni, servizi psichiatrici e psichiatria da una parte, polizia e giustizia penale dall’altra. Il 30 marzo Seung era andato in questura a Lucca per presentare delle denunce, come faceva spesso e non mancava di divulgarlo via social. Di cosa sia accaduto non sappiamo che il finale: Seung spruzza spray al peperoncino contro i presenti, la Questura lascia che si allontani chiedendo a Comune e Asl di attivare un accertamento sanitario obbligatorio che nessuno mette in atto. Sul giovane pendeva già una misura di sicurezza disposta da un magistrato di Lucca per l’aggressione, nel 2022, contro un vigilante del tribunale. Il perito psichiatra aveva dichiarato Seung “incapace di intendere e di volere” e “di accertata pericolosità sociale”, e a gennaio di quest’anno era diventata definitiva la sentenza che avrebbe comportato libertà vigilata o ricovero in una struttura, ma anche questa disposizione nessuno la mette in atto.
Starà alla magistratura dipanare il problema delle responsabilità. Intanto però una domanda possiamo farcela: perché Seung non è stato preso sul serio? Solo sciatteria? Lentezza burocratica? Ma forse il problema è che le sue parole e i suoi ripetuti gesti significativamente violenti (anni fa aveva ferito al volto un operatore del servizio psichiatrico) sono stati rubricati come solo malati e quindi di pertinenza solo psichiatrica, motivando così quel gioco di scaricabarile delle persone “disturbanti” che i servizi psichiatrici conoscono bene ma in cui la psichiatria non è innocente affatto.
La “legge 180” ha liberato la psichiatria dal controllo della pericolosità, anche nel momento del trattamento obbligatorio. La pericolosità resta un compito di polizia e giustizia penale che non sono esentate dall’eseguirlo anche quando la persona presenti un disturbo mentale. Questa è la legge, che quindi obbliga a costruire protocolli di comunicazione e collaborazione tra psichiatria e giustizia, dei quali fa parte, quando è inevitabile, anche la cura di una persona in condizioni di sofferenza mentale sottoposta a misure restrittive o detenuta. Questi protocolli ci sono, ma non ovunque, comunicazione e collaborazione lasciano a desiderare, mentre i servizi di salute mentale troppo spesso sembrano non aver interiorizzato affatto la fine del mandato al controllo, sembrano organizzati cioè come se pensassero ancora al malato di mente pericoloso e incapace, con cui non si può interloquire né negoziare, da sedare e custodire per poterlo poi curare. Come spiegare altrimenti il fatto che la gran parte degli Spdc hanno porte e finestre chiuse, minimi o assenti spazi esterni, usano i rituali di spoliazione degli oggetti, costringono alla vita in pigiama, usano la contenzione meccanica insieme a quella farmacologica? Certo, finché i centri di salute mentale sono solo ambulatori per il controllo dei farmaci, con colloqui radi e sporadiche visite domiciliari, diventa inevitabile questo tipo di Spdc, in cui può anche accadere di morire legati a un letto. Non si dica che queste constatazioni gettano discredito sulla psichiatria: al contrario sono quegli psichiatri che programmano, con gli amministratori, e che gestiscono questo tipo di servizi a screditare la psichiatria, confermandone lo stigma di figlia ed erede del manicomio. Né si dica che questi sono solo effetti dei tagli perché da decenni vengono denunciati questi problemi e indicate le soluzioni: si veda ad esempio il disegno di legge nato nel 2017 e di recente ripresentato da Serracchiani alla Camera e Sensi al Senato. Anche il tema della modifica del Codice penale per il superamento dell’istituto dell’incapacità per vizio di mente ha un suo disegno di legge, presentato dal deputato Magi. Questo per dire che gli strumenti per il rilancio del sistema pubblico della salute mentale nel nostro paese ci sono, a condizione che crescano le risorse ma anche la volontà di liberarci davvero dal manicomio.
13 maggio 2023
Fonte: Il Manifesto